PANE E FOCACCE. Il primo fast-food naturale, ma è cibo di complemento.
«Di polenta, non di pane, è chiaro che sono vissuti i Romani per lungo tempo», ha scritto lo storico naturalista Plinio il Vecchio nelle sue “Storie Naturali” (Pulte autem, non pane, vixisse longo tempore Romanos manifestum). Vero, verissimo. E allora diciamolo alle maestre elementari, alle suore e agli insegnanti di Catechismo, che vanno insinuando nei bambini l’idea che “il pane è il primo cibo dell’Uomo”. Forse tra i nomadi del deserto, tra gli Ebrei a cui apparteneva Gesù, ammesso e non concesso che sia mai esistito, ma non certo tra i ben più ricchi Etruschi e Romani, i quali potevano godere di una terra fertile e ricca di ogni vegetale e quindi potevano concedersi il lusso, per l’epoca, di mangiare ogni giorno pietanze cotte e variate, come zuppe, polente e minestre. Altro che pane secco. E poi, ci vollero molti secoli per abituarsi a questo cibo precotto e freddo – in quei tempi sempre freddi – che non era certo possibile andare a comperare al supermercato! Solo i domestici nelle case patrizie lo facevano, per sé. Insomma, i cittadini e gli agricoltori non lo usavano, se non in viaggio. Invece, lo usavano per necessità gli operai, i pastori, i soldati, i contadini durante i lavori estivi sui campi, insomma chi era costretto a mangiare velocemente e scomodamente all’aperto, “sul lavoro”, chi non aveva una casa col focolare acceso.
Il primo vero e proprio fast food della Storia, il primo “cibo pronto” naturale, è stato il pane. Ma curiosamente non lo mangiavano né i ricchi né i poveri: i primi perché avevano sempre di meglio, i secondi perché – ammesso pure che trovassero farina e forno acceso a portata di mano – non avevano il companatico, sempre costoso, da accompagnare al pane (a meno che non fosse cipolla, pasta d’acciughe o allec, ravanello o erbe di campo). E infatti, durante l’Impero, il panino più sognato dai lavoratori fu il panis et perna (Panisperna è una famosa antica strada romana della Suburra), cioè il pane e prosciutto. Un miraggio.
Il pane si impose come cibo per molti solo verso il II secolo avanti Cristo, quindi molto tardi. Quando cominciarono a proporlo dalle botteghe i pistores (fornai) pubblici. In precedenza, come detto, il pane era fatto in casa per i domestici. Era d'orzo, segale o altri cereali, basso come oggi sono le focacce non lievitate, le pizze bianche, o addirittura le piadine. Il pane è sempre stato basso o bassissimo, addirittura una sfoglia (così si conservava e si poteva rompere più facilmente una volta secco). Ricordiamoci di testaroli, carta da musica, pappadam, chapati, pane svedese, crackers, il pane ebraico.
Cibo di emergenza per le rapide merende all’aperto di nomadi, viaggiatori, pastori, contadini, cacciatori, soldati, marinai, operai. Alimento veloce, rozzo, maschile, ma anche secondario, colazione “di lavoro”. Anzi, non un vero alimento, ma un complemento. Che in casi estremi diventava cibo vero, l’unico cibo.
Non era molliccio, malcotto e tutta mollica come quello pessimo che oggi si fa in Italia, ma era una focaccetta integrale crostosa e dura. Bisognava avere denti buoni. Altro che retorica dei sillabari scolastici del Novecento sul "pane fresco, appena sfornato". Gli Antichi non lo mangiavano quasi mai così: piadine e gallette erano fatte apposta per essere conservate, anche per mesi. Il popolo d'Atene, vista la povertà alimentare della Grecia costretta ad importare i cereali, non poteva fare a meno ogni giorno della piadina di orzo, la maza. Il pane lievitato (artos) di frumento, costoso, era riservato nelle leggi di Solone, ai giorni di festa.
Solo quando i popoli più ricchi, come gli Etrusco-Romani, passarono alle varie specie di frumento spoglio, adatto alla lievitazione, il pane divenne più alto e soffice, ma più costoso. Non quotidiano, però. In casa, non era certo preparato ogni giorno, data la lunga trafila (8 ore solo per la lievitazione con la "pasta madre"), ma era fatto ogni tanto in grande quantità per la famiglia patriarcale, spesso dopo il raccolto, per fare da scorta per la settimana, il mese, la stagione, l’inverno, magari per tutto l’anno. Era conservato all’aria, in alto, appeso tra le travi del soffitto (contro i furti di topi, bambini e servitori, sempre affamati), talvolta impilato nei bastoni tra le travi, come il pane tondo svedese di segale, oggi nella versione industriale leggero come un cracker, che ha un apposito foro al centro.
A differenza di quello di oggi, bianco e mollicoso, il pane grezzo d’una volta si seccava bene perché era sempre molto basso e carente di mollica, e raramente ammuffiva. Ma così diventava durissimo, impossibile a tagliarsi col coltello: ci voleva letteralmente l’ascia o la sega. E i pezzi di pane duro erano utilizzati nei minestroni, come crostoni nelle zuppe, come base per la panzanella intrisi di leggero agresto o di più forte aceto, cosparsi di cipolla, erbe e sale (il pomodoro non esisteva), oppure fatti rinvenire per il piacere effimero di un’ora al calore del fuoco (tipico "ringiovanimento" del pane duro, che ridiventa per poco tempo quasi fresco, grazie probabilmente a qualche reviviscenza enzimatica). Insomma, perfino il pane fresco era un lusso.
Il pane nasce dunque come il massimo artificio. E' industria, complessità tecnologica, fast food per antonomasia. E se non si rispetta con scrupolo la tecnica, viene male, o meglio sempre diverso. Comunque, ha ben poco del chicco di grano originario. C’è più differenza tecnologica tra il seme dei cereali e il pane, che tra il seme delle nocciole e la Nutella. Un trucco geniale per cucinare il meno possibile (già allora!) e conservare la…polenta, che all’origine della civiltà umana è il cibo di base quotidiano: farina cotta in acqua.
Perché fu inventato il pane, con un processo così artificiale e poco intuitivo? Sicuramente sarà stato frutto d’una scoperta casuale. Forse un sacco di farina bagnata per un acquazzone e poi fermentata. Che farne? Di gettarla non se ne parlava: i nostri progenitori, che tutto il giorno pensavano a raccogliere qualcosa da mettere sotto i denti, non buttavano mai nulla, neanche il cibo andato a male. Anzi, il fermentato e il putrido spesso piacevano. Ma questa poltiglia non piacque. Qualcuno provò ad "asciugare" quella massa puzzolente di lieviti spontanei al fuoco: e nacque il pane. Che, sorpresa, è del tutto diverso dai suoi componenti d’origine. Poco meno che un miracolo deve essere stato considerato, come il vino più tardi.
Era stato scoperto il primo fast food della storia, anzi più essenziale, moderno e razionale dell’attuale fast food, che ormai pretende tavoli, sedie, bicchieri e posate, e quindi smentisce se stesso diventando lento. Era ed è il cibo ideale per mangiar fuori casa. Conservabile, non sporca, non vuole stoviglie, da mangiare facilmente anche a dorso di mulo, su un carro di buoi, in barca, in tenda, in officina, in carrozza, camminando per campi e foreste. Perfetto in un accampamento, all’alba, prima e durante una battaglia, o in un rifugio di rami e fronde vicino agli animali, magari con l’accompagnamento d’un pezzo di formaggio, aspettando che passi la tempesta.
Infatti, dovunque ci fosse una vera casa ricca di provviste, con delle donne e bambini, non si mangiava certo pane, ma cibi femminili, elaborati, complessi, che vogliono regole, ingredienti e riti precisi, insomma "culturali" in senso antropologico: zuppe, brodi, minestre, polente, farinate, torte, sformati.
Due categorie di cibi, pane e focacce contro minestre e polente, segnate da quattro curiosi paradossi. Il primo paradosso del pane: molta sostanza e poco lavoro. Un cibo molto energetico che poteva essere preparato anche dagli uomini meno avvezzi alla cucina in pochi minuti, come il pastorello Symilo nel poemetto dello pseudo-Virgilio Moretum, che stende sulla pietra incandescente un rozzo impasto di farina e acqua appiattito con le dita. Perciò focaceum, messo direttamente al fuoco (da cui focaccia). E sulla focaccia bollente, segno che il pane da solo non esiste, perfino il povero Symilo spalmerà il moretum, piccante e aromatico impasto al mortaio di pietra fatto di formaggio stagionato, olio, aceto, molto aglio, sedano selvatico, ruta e coriandolo. Secondo Columella e altri, anche ligustico, crescione, santoreggia, timo e le erbe più varie.
Ma pane e focacce pur essendo in sé un cibo ricco e costoso – il frumento vuole campi fertili ed è soggetto a carestia – sono nate e fatte da-per i poveri o per chi si trova occasionalmente a vivere nel disagio ambientale, cioè "come i poveri". E’ il secondo paradosso.
La sua concorrente, la minestra (l'attuale "ministro" deriva da minister, il cameriere che distribuiva le zuppe ai commensali. Ma sembra che oggi distribuisca un altro genere di favori...), vive invece di altri due paradossi diversi e speculari. Il primo: poca sostanza con molto lavoro. La minestra è fatta solo di verdure, cereali e legumi, ma per chi ha donne che raccolgono o comprano una varietà di verdure fresche, legumi nella dispensa, condimenti, una grande casa con cucina, personale che vi lavora a lungo, un fuoco continuo, stoviglie, tavoli, panche, una certa educazione per l’uso del cucchiaio, e tanto tempo per mangiare con calma. Un cibo povero, ma per abbienti.
Ecco perché nella nostra cultura – che è etrusco-romana – il pane era fatto in casa, quasi solo per gli uomini di fatica. I pubblici fornai non esistevano. A Roma – potrà sembrare incredibile – il pane si impose come cibo comune e frequente molto tardi, solo nel III sec. a C. Ma non era un cibo completo, era un cibo di accompagnamento: aveva e ha bisogno sempre d’un cibo (vero) da mangiarsi insieme. Quindi alla fin fine risulta costoso.
Quel che è certo, è che il pane non è mai stato il cibo atavico, "l’alimento base dell’Uomo", come invece racconta la religione cristiana nata nell’arido Oriente, in cui la lontananza dai campi induceva a mangiare poco e male, appunto come i nomadi, piadine secche (poi stilizzate nell’ostia, v. Ultima Cena) o condite (simili alla attuale abusata "pizza napoletana", che con Napoli c’entra fino ad un certo punto, essendo una forma antichissima e ubiquitaria come tutte le focacce, v. chapati e pappadam dell'India, il pane-cracker della Svezia, il pane azzimo ebraico, la piadina di Romagna, il testarolo in Liguria, i panigacci in Lunigiana, la carta da musica sarda, i tacos messicani), anziché i più naturali e sani alimenti molto idratati (polente, minestre, zuppe di verduire, insalate) che vogliono un’orto irriguo vicino.
E nella fertile Roma, capitale delle minestre, ma anche di polente, brodi, sformati e contorni variegati, Catone giustamente protesta quando per pigrizia prima (nelle domus padronali) e poi per mancanza di "angoli cottura" nelle insulae, le popolari case-dormitorio alte fino a 6 piani (l’unica culina o cucina condominiale stava nel cortile, pensate un po’ la ressa) si diffonde la moda di mangiare panini perfino a casa o camminando per strada.
Ma il laborioso e forte civis romanus andando di quel passo, cioè rinunciando a rimestare ogni giorno l’antica polenta, la puls di miglio, orzo o grano – si chiedeva angosciato Catone, grande moralista e gastronomo (ha lasciato ricette per i suoi fattori e lavoranti, tra cui la placenta o timballo di lasagne e ricotta) – non si sarebbe infiacchito perdendo alla fine perfino il coraggio e le antiche virtù? E così avvenne, infatti.
Perché la gente, già allora, si era impigrita. I Mac Donald dell’epoca, le centinaia di chioschi delle città romane, consentivano di saltare pranzo e cena spingendo a mangiucchiare tutto il giorno, come si fa tuttora in Grecia e in Oriente. Cosa inusitata per gli austeri Romani della Repubblica.
Il pane, con i suoi innumerevoli condimenti e verdure (nasce allora la focaccia bassa condita che oggi il pomodoro ha rilanciato in tutto il mondo), permetteva di mangiare senza mai cucinare, vivendo in città quasi solo di fast food. Ma voleva un companatico spesso costoso. Panisperna (pane e prosciutto: a Roma c'è una via con questo nome) era un mito irraggiungibile per il popolo minuto, alla portata forse di artigiani e contadini. e liberti arricchiti. La gente a Roma, tranne pochissimi privilegiati, non mangiava quasi mai carne, era vegetariana senza saperlo.
E oggi sappiamo che mangiare così non sarebbe mai completo, mai sufficiente. Come inserire, infatti, verdura o frutta abbondante in un panino? Visto anche che dovremmo consumare 6 porzioni di verdura e frutta al giorno. E i panini, per quanto buoni, tradizionali, integrali ecc. (ma quelli davvero sani sono rarissimi in Italia…) spingono a semplificare troppo il pasto, a privilegiare troppo i carboidrati, ed anche istintivamente a bere, qualsiasi liquido. E sappiamo che razza di bevande zuccherate sono in vendita oggi.
Perciò, gustiamo un buon panino integrale solo ogni tanto, magari lievitato con "pasta madre" acida, farcito di ricotta ed erbe aromatiche (se siamo in ufficio o in mezzo alla gente anziché l’aglio mettiamo del pepe o peperoncino), come una piacevole novità. E lo stesso pane, non è essenziale in casa, a parte l’odore che si spande durante la cottura, e che permane tutto il giorno. Usiamolo poco e di rado, ma che sia ottimo, magari fatto da noi, che non abbia il gusto di cenere come certo pane integrale che si compra nei negozi alternativi (ed è il migliore: figuratevi quello finto leggero del fornaio sottocasa, pieno di "facilitatori" e sostanze aggiunte, e quasi sempre amido puro).
Viva il pane, certo, come esperienza, come patrimonio culturale, come gusto. Siamo tutti giustamente innamorati del pane e delle cento focacce italiane, prime nel mondo. Ma ormai, il sedentarismo e il perfezionamento continuo della dieta naturale ci devono spingere più a farlo e odorarlo che a mangiarlo. Che sia integrale e a pasta acida, certo, e che sia eccellente (quindi dobbiamo farcelo...), ma perfino nell’alimentazione pratica naturale, visto che viviamo nel 2008 e lavoriamo non con l'aratro ma col computer, e che nessuno vuole più neanche camminare (ne sappiamo qualcosa. i nostri ricorrenti inviti al trekking nella Natura cadono nel vuoto...), dobbiamo imparare a ridurre drasticamente calorie, e quindi a superarlo se vogliamo - come dobbiamo - consumare le indispensabili minestre miste, semmai a reinterpretarlo nel modo corretto, imitando gli Antichi (piccolo cibo di accompagnamento, cibo delle merende fuori casa, alimento d'emergenza) e seguendo la più aggiornata scienza della nutrizione che ora prescrive di ridurre di poco la percentuale totale dei carboidrati a favore di verdure e frutta, e oli vegetali, perché molto più protettivi dei cereali.
D'accordo, la colpa dell'attuale discredito del pane è tutta dell'abuso di cereali raffinati (pane, pasta, crackers, biscotti, tramezzini da bar, dolci) e di patate, mangiati in modo esagerato in Italia e in tutto il mondo. E la colpa è soprattutto dei cittadini che in Europa, America, Asia e Africa, nonostante le stringenti raccomandazioni dei ricercatori, si rifiutano stupidamente e caparbiamente di mangiare i cereali integrali, perfino la divina pizza napoletana integrale.
E se così è, allora i cereali raffinati, cioè tutti quelli consumati in Italia, vanno ridotti drasticamente. Nella Piramide americana di Willett (Univ. Harvard) pane e pasta all'italiana, oltre alle patate, stanno in cima, accanto alle carni rosse, cioè tra gli alimenti da mangiare "il meno possibile". I cereali integrali invece sono in basso, tra i cibi più frequenti dopo verdure e frutta. Ci fanno ridere i finti salutisti "bio" ignoranti che comprano gli spaghetti "biologici" ma bianchi. Mentre, semmai, in caso di emergenza, cioè quando non trovano il "bio", potrebbero fare il contrario: spaghetti qualunque, ma integrali. Ed è a sua volta scandaloso che l'Inran e i nutrizionisti italiani, che evidentemente "tengono famiglia" e devono difendere il finto "made in Italy" industriale, si siano stracciate le vesti per lo "scandalo". Sono loro lo scandalo, sono loro ad essere in modo imbarazzante antiscientifici, lo ripetiamo da anni.
La Scienza oggi è finalmente dalla parte nostra. Che si mangi poco pane e meno pasta, dunque, ma integrali. Altrimenti se ne faccia a meno come cibi di tutti i giorni. Dopotutto, storicamente noi non siamo "psomìfagi" o “artofagi” (mangiatori di pane, due possibili orribili neologismi inventati all'istante), ma pultifagònides, cioè mangiatori di polenta, polentoni, come dicevano i Greci invidiosi, che dimenticavano di aggiungere gli altri nostri punti di forza: i minestroni e le verdure. Basta dire che in una commedia di Plauto un cuoco si lamenta: "Mi tocca presentare in tavola piatti di verdure con contorni di verdure..." L'ideale per la scienza di oggi. E perciò ci siamo evoluti molto meglio dei Greci, primatisti mondiali in decadenza, che non avevano mai nulla di verde e di fresco da mangiare.
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IMMAGINI (dall'alto): 1. pane non lievitato dell'antico Egitto, 2. pane non lievitato della Lunigiana ("panigacci"), 3. pane non lievitato di Romagna ("piadina"), 4. pane non lievitato tradizionale svedese, 5. pane azzimo tradizionale ebraico ("matzot"), 6. focaccia bassa lievitata condita, 7. focaccia bassa lievitata condita "napoletana", 8. focaccia bassa lievitata "genovese", 9. pane lievitato integrale comune.
AGGIORNATO IL 9 OTTOBRE 2014
Etichette: cereali integrali, lievitazione, lievito naturale, pane, pane integrale, pasta madre, raffinazione, storia
5 Comments:
Mooolto interessante. Grazie.
Bellissimo, l'ho già copiato nei miei appunti. Bella anche la scelta delle foto. Baci
Be', dire agli italiani che devono mangiare meno farinacei è un'impresa. Ma poi in alternativa non mangeranno più formaggi, carne e fast food?
davvero davvero interssante, grazie ;-)
mi è piaciuto molto..complimenti
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