domenica 6 marzo 2016

VARIETÀ. Mangiare “un po’ di tutto” è un pessimo messaggio. E fa anche male.

«Il mangiar sano? Semplice: nessuna restrizione, nessuna teoria sul cibo, nessuna fisima»: è sufficiente «mangiare con moderazione» un «poco di tutto». Ecco la quintessenza della nuova saggezza popolar-scientifica, il vecchio e nuovo luogo comune d’apparente buonsenso di una strana e inusitata alleanza di nonne, madri, medici di base e perfino dietologi e nutrizionisti con tanto di càmice bianco alla tv. Ma, a proposito di càmici bianchi, attenti a non confonderli con salumieri e macellai, perché qualche volta, nonostante i tanti soldi che la Comunità ha speso per farli studiare all'Università e laureare, non sono tanto più credibili di loro. 
      Che cosa vuol dire "mangiare di tutto"? Che cosa vuol dire "un poco"? E' chiaro che ognuno se li aggiusta come vuole. Tutto un poco allo stesso modo, oppure poco in proporzioni diverse? Capiamo che intendono dire probabilmente che un errore ogni tanto non deve preoccupare, che gli eccessi o le fissazioni sono sempre un errore; e soprattutto che vogliono rivolgersi solo alle persone "semplici"; ma non è così che queste cose vanno dette. Così esagerano, e rischiano di apparire, anzi di essere più semplici di loro.
      Un "poco" di verdure, infatti, è troppo poco, visto che le direttive OMS sono di "almeno 5 porzioni al giorno tra verdure e frutta" (interpretate poi da esperti specialisti come "2 porzioni di frutta" e "almeno 3 porzioni di verdura" al giorno). Anzi, ci sono studi che dimostrano, vista l'esiguità di ogni porzione consigliata (per alcuni 100 g di verdure crude, ma per altri solo 50 g), che "più porzioni se ne consumano, meglio è". E dunque, 5, 6, 7, perfino 10 porzioni sono possibili in particolari casi, e si ottengono facilmente col raddoppio delle quantità di verdure cotte e insalate. Insomma, quel "almeno 5 porzioni" tra verdura e frutta (cioè "almeno 3 porzioni di verdure al giorno") sono non "poco", ma tanto, tantissimo. Quindi, già un errore grossolano, perché di verdure e frutta bisogna, invece mangiarne tanto. Se non altro per furbizia dietetica, cioè per non mangiare al loro posto alimenti ad alta densità energetica o ricchi di grassi o zucchero. E questo va detto.
      E invece un "poco" di carne grassa cotta alla brace e in alcuni punti carbonizzata, o un "poco" di bibita zuccherata a pasto, è tanto, troppo. E i semi oleosi crudi (mandorle, nocciole, noci ecc.) vanno consumati "poco", anzi pochissimo, quasi mai, come il burro cotto o l'olio fritto più volte, condimenti a rischio ricchi di radicali liberi, o invece se ne possono mangiare di più e ogni giorno, visto che sono addirittura protettivi? E com'è possibile mettere sullo stesso piano il "poco" di cereali raffinati (anzi, da consumare il meno possibile, secondo Willett) con il "poco" di cereali integrali, fondamentali per fibre, sostanze protettive e lenta assimilazione dei carboidrati? Altrettanto "pochi" questi ultimi? E' evidente che no. 
      Ma allora i numerosi cibi negativi, pur singolarmente "pochi", sommandosi diventerebbero "tanto" e avrebbero effetti deleteri sulla qualità complessiva della dieta, a questo punto nel suo complesso non più antiossidante ma a rischio; mentre i "pochi" cibi favorevoli non avrebbero effetto sulla dieta, perché non bastanti per neutralizzare i tanti ossidanti. 
      Insomma, è chiaro che il consiglio di "mangiare di tutto un poco" è semplicistico, sbagliato, anti-scientifico, altamente diseducativo, e che al contrario gli "esperti" (virgolette d'obbligo", perché quello che conta è ciò che si dice o scrive, non un titolo accademico) devono educare il pubblico e indicare ai profani una precisa "gerarchia" di alimenti. Chi sa deve indicare la corretta via, spronare al meglio o correggere, non legittimare qualsiasi cosa faccia o dica chi non sa. Altrimenti perde credibilità e il diritto-dovere stesso di consigliare il prossimo.
      E non c'è dubbio che questa gerarchia di valore veda in testa gli alimenti tradizionali, sani e protettivi ("naturali", come li definiamo noi, in quando scelti storicamente per prove ed errori come quelli dimostratisi nella Storia i più adatti alla nostra specie, quindi evidentemente i più "naturali" per l'Uomo), che vanno consumati in quantità; e in ultimo gli alimenti più dannosi o a rischio, che vanno consumati di meno, o raramente, o una volta tanto, o il meno possibile, o anche ignorati.
      Soltanto entro questa griglia logica, che però andrebbe detta chiaramente e ben sottolineata dal cosiddetto "esperto" in televisione, YouTube, blog, giornali ecc. la raccomandazione del "mangiare un po' di tutto" (cioè tutti i cibi sani e protettivi, ben precisati in ordine decrescente: verdure, cereali integrali, legumi, semi oleosi, frutta, e piccole porzioni di latticini e uova ecc.) avrebbe un senso. Altrimenti il consiglio non è scientifico, né fondato, e non fa onore a gente che si è laureata a spese della collettività. Com'è possibile definire la varietà di alimenti protettivi, neutri e dannosi in un indistinto "tutto" alla rinfusa, quando proprio la ricerca scientifica attuale studia ogni giorno le differenze tra alimento e alimento, e sperimenta l'azione biologica di ciascuna delle migliaia di sostanze chimiche naturali presenti in ogni alimento? Sarebbe una mistificazione diseducativa e fuorviante.
      Una tale banalità poteva andar bene tra gli Etruschi e i Romani, iniziatori inconsapevoli della c.d. “dieta mediterranea” a base di tutti cibi naturali e “riconoscibili” (uniche eccezioni di prodotti artefatti popolari, pane, lagane o pasta, formaggio e vino), e forse era legittima ancora fino al Settecento. Ma non oggi, quando a differenza dell’Antichità la maggior parte dei cibi sono trasformati dall’industria, non più cibi allo stato naturale, ma “prodotti alimentari” talvolta di composizione complessa. Oggi quando pubblicità e trasporti nel “mercato globale” permettono a chiunque nel Mondo di mangiare qualunque cosa, cioè di farsi da sé la propria dieta a immagine di quello che si vede in televisione, su internet o nelle vetrine dei negozi, facendo inevitabilmente prevalere prodotti a base di zucchero, sale o grassi, diffusissimi non solo per i sapori così pieni e appaganti, e lo status symbol promesso dalla pubblicità, ma anche perché economicissimi (altra differenza con l’Antichità). 
      In questa Babele alimentare, se non ci sono regole, guide, consigli seri, precisi e non equivoci da parte di veri esperti coraggiosi, il cibo cattivo e dannoso (junk food o cibo spazzatura) finisce per prevalere. A causa dei motivi anzidetti e perché ha dietro di sé potenti interessi commerciali, a cui dietologi e nutrizionisti, spesso dipendenti statali, non vogliono o non possono dire di no. Insomma, anche nella dieta, se non si educano i cittadini fin dalla più tenera età e non si fa propaganda virtuosa, “moneta cattiva scaccia moneta buona”.
      “Mangiare un po’ di tutto”, “basta la moderazione”, è perciò un pessimo consiglio, diseducativo e qualunquistico, che sa tanto di revisionismo cioè di reazione sottoculturale alla nuova consapevolezza popolare – portata dal movimento del Naturismo fin dal primo Novecento – che il cibo è, sì, cultura antropologica e tradizione, ma solo se non è troppo diverso da quello (vario) degli Antichi, e come tale può – è stato dimostrato – ridurre i rischi (i vecchi naturisti dicevano “previene e cura”), ma solo se i cibi protettivi della Tradizione sono o esclusivi o di gran lunga prevalenti nella dieta. Non qualunque dieta varia, solo perché praticata in Italia, è tradizionale, antica, protettiva, mediterranea, sana; ma solo quella che noi definiamo per convenzione "naturale". Al contrario, oggi il cibo cattivo, per niente tradizionale, è prevalente, e quindi una dieta "variata" senza regole, non può che essere mediocre o pessima.
      Una raccomandazione che suona come una beffa, proprio oggi che la scienza sperimentale conferma la convinzione degli Antichi che il cibo è collegato alla salute, e che si conferma l'importanza non di una generica "dieta" mediterranea che non è mai esistita, ma della presenza nella dieta di ogni giorno di molti singoli alimenti protettivi, tali appunto da caratterizzare di sé l'intera dieta. Occorre, quindi, dire molti sì e molti no, altro che allargare le braccia e ripetere "fate voi", come direbbe un bidello di scuola alle richieste degli alunni. Se l’uomo è davvero ciò che mangia, è naturale che l’uomo consapevole, salutista e naturista, vorrà mangiar sano, concentrandosi sui cibi che proteggono ed escludendo il più possibile quelli che sono a rischio. Non è "fisima", non è "faddism", ma è logica, razionalità, buonsenso.
      Fisima è proprio questo luogo comune dietetico di lunga data che sostiene che sia sufficiente “mangiare un po’ di tutto”, cioè la “moderazione” generica, senza mai differenziare tra i singoli vari alimenti. Un tale modo di pensare non solo non è provato scientificamente; ma «è senza concrete prove a sostegno delle popolazioni», come ha detto la prima autrice di uno studio metabolico pubblicato da Plos One (e leggibile qui in versione completa), la biologa epidemiologa Marcia C. de Oliveira Otto, assistente professore del Dipartimento di Epidemiologia, Genetica umana e Scienze ambientali presso la School of Public Health di Huston.
      Del resto, aggiungiamo, il luogo comune “un poco di tutto” contraddice anche i risultati di diversi studi sui composti naturali protettivi e sulle porzioni giornaliere delle verdure, che concludono affermando che “più se ne consumano, meglio è”. Quindi, come “moderarsi” sui cibi protettivi è illogico (potrebbero risultare inefficaci, visto che “è la dose che fa il farmaco”), così è imprudente essere permissivi sulla dieta allargandola con noncuranza anche alle preparazioni o agli alimenti a più alto rischio.
      Ora questo studio metabolico di ricercatori dell’Università del Texas (Health Science Center a Houston) e della Tufts University (Friedman School of Nutrition Science and Policy) dimostra che la diversità della dieta senza discriminazione tra cibi protettivi e cibi a rischio può essere collegata a una sua più bassa qualità e a conseguenze patologiche, come una maggiore circonferenza di vita, una peggiore salute metabolica, un più alto rischio di diabete, come si legge nel risultato e nelle conclusioni dello studio.
      Innanzitutto, lo studio ha permesso di delineare nuove caratterizzazioni degli alimenti tenendo conto del conteggio totale (numero di diversi alimenti consumati in una settimana), e dei criteri della uniformità (distribuzione delle calorie nei cibi diversi consumati) e diversità (le differenze delle caratteristiche alimentari rilevanti per la salute metabolica, come contenuto fibra, sodio o grassi trans), come riferisce un ampio articolo di commento su Science Daily.
      Poi ha utilizzando i dati provenienti da 6.814 partecipanti allo studio multietnico di aterosclerosi con soggetti bianchi, neri, ispanici-americani e cinesi-americani negli Stati Uniti. È stata valutata l’associazione della diversità della dieta al cambiamento del “giro vita”, cioè la circonferenza tra costole e anche, un indicatore importante del grasso centrale e della salute metabolica,.5 anni dopo l'inizio dello studio, e ai casi di diabete di tipo 2 di verificatisi 10 anni più tardi.
      Il risultato è stato che quando si valutavano il totale dei cibi consumati e l’uniformità, non si osservavano associazioni con l’aumento della circonferenza della vita o l'incidenza di diabete. Insomma, più uniformità e omogeneità nella dieta era collegata a risultati migliori. Al contrario, la maggiore differenziazione tra cibi era collegata a risultati peggiori, e i soggetti con dieta più varia mostravano un aumento di peso “centrale” e un aumento del giro vita maggiore del 120 per cento di quelli a dieta con minore diversità tra i cibi, cioè più uniforme.
      Per misurare la “qualità metabolica” di una dieta meno diversificata sul metabolismo, i ricercatori hanno utilizzato i punteggi stabiliti dal Dietary Approaches to Stop Hypertension (DASH) e di Alternative Healthy Eating Index (AHEI). Ebbene, hanno scoperto che dopo 10 anni la più alta qualità della dieta, cioè quella meno diversificata, era associata a un 25 per cento circa di minor rischio di diabete di tipo 2.
La scoperta inaspettata – ha spiegato la ricercatrice Marcia Otto – era stata proprio questa: che i soggetti con una dieta più varia in pratica mangiavano meno alimenti sani come verdura e frutta, e più alimenti poco sani come salumi, dolci e bibite gassate dolci. «Questo può aiutare a spiegare il rapporto tra maggiore diversità alimentare e maggiore circonferenza di vita».
      «Variety is key? For healthy balanced diet, a uniform food routine may be best». La chiave è la varietà? Per una sana dieta equilibrata, una routine alimentare uniforme può essere la scelta migliore, titola il sito Medical Daily nel riferire sullo studio di Otto. Ma sì, una "routine" virtuosa, di soli cibi sani, piuttosto che uno scomposto svolazzare qua e là, a cercare una completezza che non ha senso se non è sana e naturale.      
      Certo, si dirà, ma questo studio riguarda soggetti Americani, non Europei o Italiani. Ma, innanzitutto, anche «gli americani con le diete più sane in realtà mangiano una gamma relativamente piccola di alimenti sani», ha osservato il capo-ricerca senior dello studio, il medico Dariush Mozaffarian, decano della Scuola Friedman di Scienza e Gestione della Nutrizione presso la Tufts University di Boston, come riporta su Science Daily il biologo Nikhil S. Padhye, altro coautore. «E questi risultati – aggiunge Mozaffarian – suggeriscono che nelle diete moderne, mangiare “tutto con moderazione” è in realtà peggiore che mangiare un minor numero di cibi sani».
      La tendenza, perciò, come avevamo intuito da sempre, è generale. Perché è la psicologia umana che spiega la tendenza di una alimentazione molto variata, da interpretarsi inevitabilmente come libera e senza freni, a includere o sperimentare anche il negativo, o sempre più il negativo (cibo dannoso accettato con la scusa del gusto, della socializzazione ecc.) rispetto al positivo (cibo salutare, visto come costrizione ed emarginazione).
     Come concludere? È sbagliatissimo, diseducativo, limitarsi a negare ogni selezione nutrizionale e salutistica tra i cibi, e consigliare, come ripeteva la nonna e oggi perfino il medico di base, la dietologa della ASL e il nutrizionista negazionista da tv (tanto da essere entrato nell’uso comune), di “mangiare un po’ di tutto”. Perché in tal modo cadono le difese psicologiche e i criteri logici selettivi tra “cibo buono” e “cibo cattivo” (anche presunti, anche esagerati fino a diventare fisime, anche sbagliati, ma sempre positivi perché mettono in funzione il senso critico, l’auto-controllo, e un certo grado di “perfezionismo”, al limite anche distorto, del soggetto; che è sempre meglio della passività totale, del nulla critico). Perché in quel “tutto” indistinto finiscono per prevalere – essendo più numerosi, più pubblicizzati e più seducenti – i cibi peggiori. 
      Non siamo tra gli Etruschi: oggi nel “tutto” del consiglio di “mangiare un po’ di tutto” ci sono merendine e salatini, tramezzini del bar e wurstel, hamburger e stracotti, salse e creme spalmabili, pane bianco raffinato, pizze di farina 00, biscotti e cornetti, gelati e caramelle, salumi e dolci pieni di zucchero-amido-burro (o margarina). Anche la nostra pizza napoletana, purtroppo molto diversa da quella originale, creata quando non esisteva la farina 00, fa parte del junk food che W.Willett di Harward pone in cima alla sua Piramide alimentare e raccomanda di “consumare il meno possibile”, come se fosse zucchero. Senza contare i tanti cibi sottosale, e l’eccesso di carne, pure cotta ad altissima temperatura, bruciacchiata, con tanto di strisce nere, e i salumi obbligatori negli antipasti, residuo inspiegabile di quando erano solo un modo di conservazione della carne, in assenza di frigoriferi.
      Quando si dice “tutto”, perciò, si deve pensare, specialmente se si è "esperti", docenti, ricercatori o divulgatori, che ci si riferisce inevitabilmente anche ai cibi spazzatura o junk food, che oggi sono la maggior parte del cibo presente ogni giorno. È grave perciò che oggi, con la fame che abbiamo di cibi antiossidanti (l’eccesso di cottura e la lunga conservazione li riduce o distrugge) e col pessimo cibo industriale che avanza, alcuni “esperti” vestiti di camice bianco, che a veder meglio non sono né salumieri né droghieri ma dietologi o nutrizionisti; e magari anche docenti, continuino a raccomandare di non badare alle “teorie salutistiche” e di “mangiare un po’ di tutto”. Che li abbiamo fatti studiare a fare?
      Ma che cosa aggiungere di positivo e propositivo? Che consigliare di “mangiare variato” (“e completo” bisogna aggiungere) si può, anzi è corretto, solo quando la raccomandazione si riferisce esplicitamente a un quadro di riferimento razionale, quello dell’alimentazione tradizionale e naturale che ha visto formarsi la nostra grande Civiltà e che ora, dopo tanti errori dietologici del passato, la scienza “riscopre” e sembra far sua. Insomma, la varietà si deve misurare solo col cibo sano e protettivo, che bisogna già conoscere, e ovviamente nelle quantità e proporzioni sensate ammesse dalla scienza oggi. Quindi sbaglierebbe, per fare un esempio balzano, ma non inventato, lo pseudo-salutista da palestra che accanto a enormi quantità di verdure, frutta e cereali integrali (gli antiossidanti sono di moda nelle palestre...), dopo varie uova senza tuorlo e pesce, ingurgitasse anche una o due bistecche al giorno, imbottito com'è di false teorie sulle proteine.
      Una buona regola psicologica per realizzare bene la varietà della dieta è la riconoscibilità dei cibi. Anche oggi che, per fortuna, accanto al junk food i cibi integrali e-o antiossidanti sono aumentati di numero. Ma che siano riconoscibili, a cominciare dai cereali integrali e legumi (e qui la massima diversificazione e varietà è non solo consentita ma doverosa): meglio chicchi e semi allo stato naturale, piuttosto che preparati o prodotti complessi e misteriosi, per i quali occorre addirittura la composizione con gli ingredienti. Ma chi richiede i chicchi di grano, tenero o duro che sia, al naturale? Nessuno, neanche i fissati del farro o del kamut. Ebbene il grano è lo stesso, ma costa la metà. 
      E molto meglio un buon piatto di ceci preparato da noi che le proteine di soia o altre proteine estratte artificialmente. Spaventa così tanto la cottura? Non capiamo davvero: abbiamo già dimostrato che cuocendo insieme anche solo 500 g di legumi in pentola a pressione (sistema naturalissimo, il vapore a pressione, e meno distruttivo della lunghissima cottura nel coccio), il tempo di cottura per porzione dei legumi è inferiore a quello medio della pasta: 5-6-7 minuti! 
      E ancora, meglio una terrina di ottimo riso integrale rosso o nero Venere che le gallette di riso soffiato industriale, quand’anche fosse “biologico”. E' inutile, tempo perso, farsi il pane in casa come se fosse chissà quale gesto naturistico, e poi usare la farina raffinata 00 o 0, privata di fondamentali sostanze protettive, che Willett giustamente equipara al cibo spazzatura da consumare "il meno possibile" (arriva tardi: noi lo dicevamo già negli anni 70). E riscopriamo non solo tutti i cereali integrali, ma soprattutto quelli più antiossidanti o protettivi, come saraceno e avena. Usiamo le semplici tecniche di ieri, come i chicchi di grano tenero germogliati, che permettono di mangiarlo crudo, più salutare ancora, per la moltiplicazione enzimatica e la maggiore digeribilità. E le decine di legumi diversamente colorati, tutti rigorosamente con la buccia, ricchissima di polifenoli e anti-enzimi anticancro e anti-lipidi.
      La medesima varietà deve esserci tra le verdure e gli ortaggi: non è possibile limitarsi alla banale lattuga, poco vitaminica e poco dotata di antiossidanti, bisogna "fare domanda", cioè richiedere al venditore le insalate scure, le verdure che si possono mangiare crude di colore verde scuro o rossastro o giallo. A forza di chiederle ci saranno sui banchi. Non è possibile che la migliore verdura da consumare cruda, il crescione, non si trovi. E di ortaggi verdi, rossi e gialli, più ce n’è a tavola - non solo in quantità, ma anche in tipi e varietà - meglio è. Non farsi mai mancare nel pasto spezie, erbe aromatiche e i bulbi delle liliacee (cipolla, aglio), e neanche i più vari tipi di frutta. In quest'ultimo caso, però, senza eccedere oltre le 2-3 porzioni al giorno: lo zucchero resta tale anche quando è nella frutta. Non ce n’è alcun bisogno nell’organismo, poiché per la fornitura dell’essenziale glucosio basterebbero gli amidi. Ricordiamoci sempre che serve più che altro al piacere e al gusto, a meno che non si debba fare esercizio fisico immediato. E anche le porzioni quotidiane previste per i latticini e le uova. Per i naturisti e salutisti non vegetariani pochissima carne e non troppo cotta (una volta a settimana era il rito antico dei contadini abbienti); per i salutisti onnivori è meglio il pesce, pur con tutti i suoi problemi e rischi.
      Quando scrivevo il manuale L’Alimentazione Naturale per la Mondadori (così fu creata l’espressione che avrebbe poi avuto così tanto successo da essere usata anche dagli imbroglioni o dai fanatici delle varie sètte, oltre che dalla pubblicità), calcolai con approssimazione per difetto che i cibi a disposizione di un naturista fantasioso e appassionato oggi possano superare i 500. Ne abbiamo da scegliere e da abbinare! Più ne inseriamo nella nostra dieta quotidiana, meglio è. Ma con le regole ben note. Evviva la bio-diversità, ma nel naturale!


RIFERIMENTO
DE OLIVEIRA OTTO MC, PADHYE NS, BERTONI AG, JACOBS DR, MOZAFFARIAN D. Everything in Moderation - Dietary Diversity and Quality, Central Obesity and Risk of Diabetes. Plos One 2015; 10 (10): e0141341 DOI: 10.1371/journal.pone.0141341
      Riassunto. Diet guidelines recommend increasing dietary diversity. Yet, metrics for dietary diversity have neither been well-defined nor evaluated for impact on metabolic health. Also, whether diversity has effects independent of diet quality is unknown. We characterized and evaluated associations of diet diversity and quality with abdominal obesity and type II diabetes (T2D) in the Multi-Ethnic Study of Atherosclerosis. At baseline (2000–02), diet was assessed among 5,160 Whites, Hispanic, Blacks, and Chinese age 45–84 y and free of T2D, using a validated questionnaire. Three different aspects of diet diversity were characterized including count (number of different food items eaten more than once/week, a broad measure of diversity), evenness (Berry index, a measure of the spread of the diversity), and dissimilarity (Jaccard distance, a measure of the diversity of the attributes of the foods consumed). Diet quality was characterized using aHEI, DASH, and a priori pattern. Count and evenness were weakly positively correlated with diet quality (r with AHEI: 0.20, 0.04), while dissimilarity was moderately inversely correlated (r = - 0.34). In multivariate models, neither count nor evenness was associated with change in waist circumference (WC) or incident T2D. Greater food dissimilarity was associated with higher gain in WC (p-trend < 0.01), with 120% higher gain in participants in the highest quintile of dissimilarity scores. Diet diversity was not associated with incident T2D. Also, none of the diversity metrics were associated with change in WC or incident T2D when restricted to only healthier or less healthy foods. Higher diet quality was associated with lower risk of T2D. Our findings provide little evidence for benefits of diet diversity for either abdominal obesity or diabetes. Greater dissimilarity among foods was actually associated with gain in WC. These results do not support the notion that “eating everything in moderation” leads to greater diet quality or better metabolic health.

AGGIORNATO IL 5 MAGGIO 2016