martedì 29 maggio 2007

BEVANDE. Le bibite industriali fanno male, ma le bollicine non c’entrano

Un bell’esempio di confusione e di pessimo giornalismo divulgativo è l’articolo del Corriere della Sera sulle bibite industriali. Genera confusione e molti equivoci nel lettore, ed è molto impreciso. Prima accusa nel titolo le "bollicine", cioè l’innocua anidride carbonica, che anzi aiuta a conservare più a lungo batteriologicamente pura l'acqua o la bevanda, poi scopre due cose vecchie quanto il cucco, sapute e risapute. Il pessimo giornalismo ripete sempre le stesse cose:
1. Lo zucchero in abbondanza delle bevande industriali (tutte, in bottiglia o lattina: aranciate, limonate, gazzose, ginger, chinotti, cola ecc) fa ingrassare, sbilancia la dieta, insomma fa male, specialmente a bambini e giovani. E, detto tra di noi, fa sì che tutte queste bevande dissetino poco.
2. Per di più, come indica anche un recente studio, un conservante chimico comune nelle bibite industriali, il benzoato di sodio, è sospettato di rischio cancerogenico.
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Tutto vero, solo che c’erano mille altri modi più efficaci e professionali per dirlo. Così, invece, si fa solo confusione, allarmismo, mistificazione. "E’ il giornalismo all’italiana, bellezza!"
Ne parlo più diffusamente nel mio blog.
L'alternativa? La migliore e più dissetante bevanda del mondo è l'acqua, non ghiacciata ma molto fresca, meglio se minerale frizzante, addizionata di vero succo di limone. Senza zucchero. E' il massimo. Ma le bibite sane, naturali e perfino terapeutiche sono centinaia. E tutte si potrebbero realizzare facilmente.
Intanto, se siete al bar, distinguetevi, mostrate la vostra personalità. Mentre i vostri amici chiedono da perfetti uomini-gregge, da coatti della pubblicità, le solite pessime marche, voi ordinate un bicchierone di minerale frizzante col succo di mezzo limone (o d'un limone intero) spremuto all'istante. Il barista penserà: "Ecco uno che se ne intende!". ("Pubblicità Progresso"!)

giovedì 24 maggio 2007

VEGAN. Planck: “La dieta solo vegetale insufficiente per bambini e adulti”.

Il Tg1 delle ore 20 dell’altro ieri ha messo tra i titoli di testa la campagna che sta conducendo una giovane donna di origine inglese, ex convinta vegan, Nina Planck (nota negli Stati Uniti come divulgatrice, scrittrice di alimentazione sana e per un po’ di tempo direttrice di una catena di negozi specializzata), contro il veganismo, ovvero il vegetarismo solo vegetale senza neanche latticini e uova, dopo che negli Stati Uniti una coppia vegan di Atlanta è stata denunciata per la morte del loro neonato nutrito per folle “principio ideologico” con latte di soia e succo di mela.
      Per chi vuole documentarsi, l'articolo della Planck è su un quotidiano americano, nel suo ultimo libro, e anche nel suo sito personale. Ma mettiamo subito in guardia: la cosiddetta "dieta Planck" (che gioca anche sulla omonimia con l'Istituto che ha il nome di Max Planck, celebre fisico, che si è occupato anche di alimentazione, il quale ha più volte preso le distanze da una dieta così sbagliata) farà pure dimagrire in modo rapido e in poche settimane, ma a prezzo della salute. Del resto, anche un malato terminale può essere "magro", anzi in genere lo è. Infatti è sbilanciatissima, carente di carboidrati, ricchissima di cibi proteici animali (molta carne ecc.), quindi è anti-fisiologica e innaturale, affatica gravemente reni e altri organi, impedisce ogni prevenzione alimentare delle malattie, provoca radicali liberi a profusione, invecchia l'organismo, insomma è ad alto rischio.
      Insomma, la cosiddetta dieta Planck, nata per dimagrire, non è da seguire: è una reazione sbagliata, estremistica ed autolesionistica, ad un altro estremismo, quello di pochi vegan strettissimi e fanatici, probabilmente anoressici e con disturbi del comportamento. Allora, è molto meglio un bel "digiuno di frutta", cioè qualche giorno di sola frutta mista abbondante. Almeno entrano solo acqua, sali minerali, polifenoli antiossidanti e vitamine. E niente radicali liberi, grassi saturi, benzopirene e amine eterocicliche ultra-cancerogene della carne cotta.
      Ma, allora, perché ha avuto ed ha il suo uditorio? Per gli errori di alcune giovani madri fanatiche e impreparate. Sappiamo quanto sia irresponsabile l'abitudine – ideologica, cioè basata su un’aberrante “coerenza” integralista – di non dare ai lattanti il latte materno, perché "animale", ma solo latte di soia e succhi di frutta. Per quanto possa sembrare incredibile, ci sono stati studi scientifici e perfino sentenze giudiziarie negli Stati Uniti contro giovani madri che per motivi di fanatismo non allattavano i propri bambini.
      Sono casi rari. Molto frequenti, invece, i casi in cui le madri si convincono per inadeguatezza e non conoscenza di certe tecniche, di “non avere latte” (così dicono), o non sanno come farselo venire, e perciò senza consultare nessuno iniziano a dare al lattante il latte di soia, addirittura quello comune dei supermercati, perché costa poco, al posto di quello integrato per i lattanti, ingiustamente molto più costoso.
      La cosa più grave, però, è che spesso, anche se la madre vegan ha il latte, il latte della madre vegan può essere carente di sostanze nutritive, e quindi non bastare al bambino lattante. Specialmente se la madre è vegan da anni. Il problema riguarda anche madri lacto-ovo-vegetariane, naturiste, macrobiotiche e perfino onnivore, in caso di denutrizione, anoressia, depressioni gravi e comunque dieta carente. Infatti, le riserve nel fegato della vit. B12 si esauriscono dopo pochi mesi o molti anni, a seconda della salute e dei farmaci assunti. Sul cruciale argomento della vitamina B12 si veda la monografia dedicata, con molti dati scientifici.
      Perciò non è solo questione di nutrizione del lattante, cioè il vecchio dilemma "allattamento al seno o artificiale", ma proprio della validità del regime alimentare vegan in sé, per tutti, adulti compresi (la madre, in questo caso). Questo è il dato nutrizionale da sottolineare.
      Fatto sta che l’ideatrice di una dieta sbagliata, come la Planck, si è permessa di criticare, e con qualche fondamento purtroppo, gli eccessi del veganismo. E che non sia stata sommersa dall’ilarità generale è un brutto segno della carenza di buonsenso e di spirito critico della classe media degli Stati Uniti.
      E, sia pure controvoglia, vediamole queste “denunce” della Planck. Innanzitutto l’inadeguatezza del latte di soia rispetto al latte materno, a cui i bambini hanno diritto. Si parla di rischi dovuti alla scarsa qualità biologica - cioè carenza di alcuni aminoacidi essenziali - delle proteine vegetali sostitutive della caseina del latte. Sono le proteine degli alimenti vegetali (soia, mandorle e riso, di solito) da cui viene estratto un simil-latte alternativo.
      Ma denuncia anche la carenza nella nutrizione del bambino piccolo, lattante o da poco svezzato, di acidi grassi essenziali, tra i quali il DHA o acido docosaesanoico (uno degli omega-3 più efficaci), coinvolto anche nello sviluppo del cervello e dell’occhio, oltre ai ben noti problemi generali dovuti all’assenza totale dell’essenziale vitamina B12 - gravissima specialmente per i lattanti, che non hanno le riserve degli adulti (però adulti non vegan...) nel fegato - e alla carenza di vitamine A e D, e di minerali come calcio e zinco. Tutto questo si traduce nei lattanti e comunque nei bambini molto piccoli in forme di denutrizione più o meno gravi, forte ritardo nella crescita, scarso sviluppo del sistema nervoso, alto rischio di rachitismo e altre malattie da carenza.
      Al Tg1, nella breve intervista televisiva che seguiva la notizia, il dottor Migliaccio, confermava quello che la scienza ha da anni accertato: che cioè se ben praticata una dieta vegetariana completa (in gergo biologico-medico: "lacto-ovo-vegetariana", v. il nostro sito dedicato) offre sicure garanzie di sviluppo, prevenzione e salute anche per i bambini.
      E meno male, sia detto per inciso, dato che in Rai-Tv pontificano spesso nutrizionisti e dietologi così disinformati e prevenuti, oppure influenzati da chissà quali produttori, da affermare addirittura che "la carne è essenziale". Un errore grossolano, proprio dal punto di vista scientifico nutrizionale, visto che le carni non hanno nulla in più (semmai in meno) rispetto a latticini e uova. Per dirne una, il valore biologico, cioè l’assimilazione delle proteine: se l’uovo vale 100, la migliore carne vale 80-85 circa. In più ha le temibili amine eterocicliche, dovute alla abituale cottura ad alto fuoco, ed eccessiva aldeide malonica, entrambe sostanze cancerogene.
      Quindi, riassumendo: l’allattamento al seno, il latte materno, è il meglio che la Natura ha disposto per il lattante. Fino anche ad un anno e oltre. Noi naturisti, medici e divulgatori, abbiamo per decenni propagandato in assoluta controtendenza, anche quando medici e pediatri condizionati da produttori e ricerche pilotate diffondevano l’uso del biberon e del latte artificiale tra le madri, approfittando della loro dipendenza psicologica di "ospedalizzate". E, a proposito, basta col considerare la nascita, un evento naturale, fisiologico, un "fatto sanitario", quasi una malattia!
      Inoltre, un’alimentazione vegetariana corretta, cioè completa di tutti i principi nutritivi, non è controindicata neanche nei bambini. Anzi, li preserva da disturbi, dismetabolismi (p. es. sovrappeso e tendenza al diabete, ultime novità delle patologie infantili) e numerose malattie, riducendone molto il rischio.
Una dieta vegan, invece, spiegava Migliaccio, si è dimostrata molto spesso carente dal punto di vista nutrizionale e quindi molto rischiosa, in particolar modo per i più piccoli. Proprio perché, aggiungiamo noi, richiede grande attenzione e grande cultura specifica da parte di mamme e cuochi. Non può essere intrapresa alla leggera e di fretta, senza pensarci troppo.
      E gli adulti? Non è una contraddizione che un adulto possa vivacchiare alla meno peggio senza apparenti sintomi col veganismo, specie se interpretato con buonsenso, magari consumando ogni giorno legumi abbinati ai cereali integrali e molti semi oleosi. Se in passato, quando non era vegan, ha accumulato nel fegato una buona quantità di vit. B12, vive apparentemente bene per qualche anno. Dopo di che possono cominciare i problemi. Invece nell’adolescente e ancor più nel bambino, e nel lattante perfino se nutrito al seno da una madre vegan priva di vit.B12, le conseguenze si fanno notare prestissimo.
      E infine, siamo proprio sicuri dell'etica assolutoria, cioè che "uccidere" una pianta sia meno grave che uccidere un animale? Sempre due vite sono, come scrivo nel mio blog.
      Come commentare in margine? A dare uno sguardo in internet si scopre che quasi tutti i siti o blog vegetariani sono in realtà vegan, e tutti animati da spirito missionario: devono "convertire" il prossimo. E per far questo sparano sciocchezze, come quella che la vit.B12 è presente in molti alimenti vegetali (mentre non c'è in nessuno).
      Infine, una nota sulla psicologia della comunicazione e il giornalismo all’italiana. Negli Stati Uniti una non accademica come la Planck, che è una divulgatrice attraverso libri e articoli di successo (e neanche la migliore), ha prestigio e libero accesso al più influente giornale americano, il New York Times. Perché? Perché negli Usa, finché la Planck non dirà qualche sciocchezza, prevale il concetto del merito, dell’intelligenza da premiare. In quella redazione ci sarà qualche giornalista esperto della materia che capisce che la Planck "vale", che dice cose fondate, anche se non è docente universitaria. Oltre a rappresentare milioni di lettori.
      In Italia, invece, che accade? Che l’ignoranza dei giornalisti dirigenti, non parliamo dei giornalisti Rai, ma anche dei migliori giornali (che so: Corriere della Sera, Repubblica, Stampa), è tale, specie sulle questioni scientifiche, che per evitare polemiche, "per non sbagliare" e per la loro naturale acquiescenza al Potere, si rivolgono ormai solo a camici bianchi o a qualche barone universitario, uno dei tanti tromboni poco o nulla aggiornati, messi ad insegnare come impiegati dello Stato da un concorso pilotato fatto una volta per tutte.
E già, perché l’Italia è uno dei Paesi di serie B in cui l’insegnamento non è collegato al merito, cioè alle pubblicazioni e ricerche fatte di anno in anno, ma alle amicizie personali, politiche e sindacali.
Sempre la solita storia.
      Vedete quanti insegnamenti abbiamo tratto da questa piccola e contraddittoria vicenda?
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IMMAGINI. Le illustrazioni, dall'alto in basso: un grande piatto unico "vegan" composto di soli vegetali (da notare la coppetta di salsa di soia, poco raccomandabile perché troppo ricca di sodio e a rischio di nitrosamine),.e una confezione di latte di soia.

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venerdì 18 maggio 2007

OLIVE E OLIO. “Ma se sono uguali, mangio le olive ed elimino l’olio?”

Appena ricevuta: "Caro Nico, ti ho visto ai giovedì culturali in piazza Zama qualche settimana fa. Sono quel ragazzo con il berretto da baseball nero ke ti ha chiesto del germe di grano e dell'olio di canapa :-))). Ancora complimenti per quel bel pomeriggio ke mi/ci hai regalato. Ti volevo chiedere un consiglio. Sul tuo libro L'Alimentazione naturale tramandatomi dalla mia mamma, ho letto che consigli di assumere l'olio preferibilmente sotto forma di olive, direttamente. Quindi l'olio si può eliminare del tutto mangiando delle olive al suo posto? ..
Un'altra cosa, ho deciso di non mangiare più né carne, né pesce, né latte, né formaggio, ma solo un uovo a settimana. Mangio moltissima verdura, cereali interi, legumi, semi, frutta etc, ma mi sapresti indicare qualche buon libro per vegetariani, tanto per aggiustare il tiro? Ho da poco letto questo libro La dieta senza muco del dott. Arnold Ehret. Te lo segnalo, dato ke l'ho trovato semplicemente rivoluzionario, nel caso tu non l'avessi letto. Con rispetto ed ammirazione ti saluto.
Federico
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Caro Federico, alle origini senza dubbio l'Uomo si nutriva di frutti e semi, e in teoria quello sarebbe il nostro cibo elettivo. Come ex-arboricoli, era un'abitudine che ci portavamo dietro... Quindi è possibile sostituire l'olio con i frutti e semi di origine. E sarebbe auspicabile per i tanti che condiscono con litri d'olio: mangiando le olive non avrebbero mai sovrappeso. Anzi, ti dirò, i semi oleosi in generale hanno molte proprietà in più rispetto all'olio che se ne ricava. Preziose quantità di minerali, vitamine, proteine, carboidrati, senza contare le numerose sostanze non nutritive ma potentemente antiossidanti e protettive, che poi dopo la pressione e l'estrazione restano nella polpa secca (credo che si chiami "panello", cito a memoria) che probabilmente si usa come mangime per animali o per usi industriali.

Ma se tu ti sai regolare con le calorie, magari d'istinto, non c'è problema a usare l'olio. L'oliva è troppo diversa dal punto di vista nutritivo dall'olio d'oliva per essere una vera alternativa. L'olio d'oliva, come tutti gli oli, contiene solo grasso (99,9 g/100 g), e perciò 100 g danno ben 899 kcal. Oltre ai lipidi, cioè il grasso, non c'è nient'altro, se non tracce d'acqua e impurità. Invece l'oliva è un frutto ricco di sostanze, anche se amaro e immangiabile quando è fresco. Senza contare le annate cattive, le sofisticazioni e i trucchi a cui ricorrono i produttori, perfino nel caso dell’olio extravergine. Le olive nere, invece, hanno solo 25,1 g di grassi per 100 g, 1,5 g di proteine, tracce di carboidrati, 1,6 mg di ferro, 62 mg di calcio, 18 mg di fosforo. E danno per 100 g "solo" 235 kcal.

E tieni conto che per vivere bene dobbiamo ingerire un terzo delle calorie totali sotto forma di grassi (30 per cento circa), anche per le difese immunitarie e la conservazione dell'integrità della cellula e del DNA. E solo con le olive, campa cavallo...

E poi il secondo problema è: ai giorni nostri, come le mangi? In padella con un po' d'olio? Ecco che consumeresti di nuovo l'olio. E potresti farlo solo nei 2-3 mesi di raccolta. Quelle conservate? Ottime, ma purtroppo quelle che oggi trovi in commercio sono sempre troppo salate, troppo oleose, troppo piccanti (quando non addizionate di conservanti) per poterne fare un cibo sano abbondante e abituale. Insomma, mangiane pure, ma tieni conto che oggi sono solo un complemento, neanche essenziale, diciamo che dovrebbero essere un diversivo di tanto in tanto. Sconsiglierei di consumarne tante ogni giorno.

Diverso invece il discorso dei semi oleosi: noci, mandorle, nocciole, pinoli, sesamo, girasole ecc. Ti meravigli se ti dico che sono quasi essenziali in un'alimentazione sana? Ricchissimi di grassi utili e protettivi, i PUFA, cioè i polinsaturi, alcuni dei quali essenziali (EFA), che nel seme grazie ai potenti antiossidanti naturali si conservano freschissimi per oltre un anno (nelle noci un po' meno), finalmente non trattati termicamente e chimicamente, e insomma molto più efficaci dei rispettivi oli estratti, compreso quello d'oliva. E hanno anche molte proteine di discreta qualità, ma soprattutto minerali (pensa solo al magnesio), oligoelementi, e molti polifenoli e altre sostanze protettive e anti-cancro non nutrizionali. I semi oleosi, sì, andrebbero mangiati ogni giorno, magari in piccole quantità. Ma sono un capitolo importante: va trattato a parte, in un apposito articolo.

Sulla scelta "ovo-vegetariana" non c'è nulla da obiettare: può essere – se ben praticata – molto sana e protettiva. Purtroppo non ci sono in Italia libri, guide, manuali completi sul vegetarismo privi di qualche grosso errore, o scientifico o ideologico o gastronomico. Perché di solito sono scritti o da furbi che copiano i ricettari normali, togliendo le ricette di carne, oppure da veri e propri "missionari" esaltati che devono convincere l'Umanità tutta a salvarsi divenendo veg. Due furbizie diverse, ma che con le inesattezze danneggiano il lettore, cioè in fin dei conti l'Animale Uomo. Ne è un esempio proprio il libro di questo Ehret, un oscuro insegnante di disegno tedesco della seconda metà dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento che si mise in testa di “salvare” l’Umanità mettendola in guardia da pericoli immaginari (il “muco”, p.es., era una delle sue fissazioni sottoculturali, che lui vedeva dappertutto), dando consigli o inutili o sbagliati, ma sempre con la più grande faciloneria e superficialità. A nessuna persona sensata verrebbe in mente oggi di dar retta ai consigli di un propagandista dell’Ottocento, senza aver prima consultato almeno i dottori naturisti Carton o Bircher-Benner e tanti altri bravi terapeuti e riformatori naturisti dell’epoca.

Non so se ho ancora qualche copia del mio manuale vegetariano Il Piatto Verde, degli Oscar, che cercava appunto di ridurre al minimo questi rischi. Se ne trovo una copia te lo faccio sapere. Ciao.

AGGIORNATO L’11 DICEMBRE 2014

ANTIOSSIDANTI. Quali alimenti sono più efficaci contro i radicali liberi?

Mi scrive Patrizia, lettrice del mio libro L’Alimentazione Naturale: "A causa di problemi cardiologi seri (un intervento a una valvola e qualche anno dopo un lieve infarto, il tutto intorno ai quaranta!) assumo giornalmente dei farmaci, e sono spesso sottoposta a profilassi varie con antibiotici, nonché a raggi X. Faccio il possibile per tenermi in forma - e ci riesco - con una corretta alimentazione, ma mi sarebbe utile sapere se esiste qualche alimento-dieta che consenta se non di contrastare, almeno di attenuare un poco gli effetti dei vari bombardamenti incrociati".

Cara Patrizia, il mio Manuale di Terapie con gli Alimenti è un inno agli antiossidanti, nelle più diverse malattie. Peccato solo che sia ormai esaurito e che non glielo possa consigliare. A quanto mi riferisce, il suo sembra il classico caso in cui bisogna neutralizzare i probabili radicali liberi anche con alimenti appropriati. Ma possibile che i medici curanti non si preoccupino di prescrivere una dieta apposita, ammesso che per i gravi stress ossidativi a cui è sottoposta possa bastare una dieta? E poi da lontano e con informazioni così vaghe e generiche non si possono dare consigli pratici. Mi limiterò, perciò, a consigliare con suggerimenti di massima un soggetto ideale che voglia aumentare il potere antiossidante nella propria alimentazione.
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ESERCIZIO FISICO. Cominci innanzitutto, se il cardiologo lo consente, a fare esercizio fisico aerobico regolare e moderato, aumentando sempre la durata ma senza mai arrivare alla fatica (che produce fino a 50 volte in più radicali liberi, che durano anche diversi giorni). Può cominciare gradualmente con lunghe camminate a passo sostenuto, senza mai fermarsi: da pochi minuti i primi giorni fino a quanto può. Non è il ritmo della passeggiata da shopping, ma è come quando lei si affretta perché in ritardo. Il cuore dopo un po’ comincia a pompare velocemente.

Cooper nel suo manuale sugli sport aerobici - gli unici salutari per il cuore e preventivi per l’intero organismo - consiglia la camminata aerobica almeno 3 volte a settimana per 45 min al minimo ciascuna. Servono scarpe da ginnastica (città) o da trekking (natura), vestiti comodi e leggeri (meno caldo si sente, meno sudore si produce, e meglio è). Ma va benissimo anche la bicicletta (senza intoppi da traffico o semafori, però) o la cyclette, che prevedono tempi inferiori alla camminata. Prima della cyclette intensiva un test ergonomico da sforzo ci starebbe bene: senta il cardiologo o un medico sportivo.
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RADICALI LIBERI: BUONI E CATTIVI. I radicali liberi sono frammenti di molecole molto instabili che si formano nell’organismo sia per normali processi fisiologici, nei quali sono spesso utili, sia a causa di fattori esterni chimici o fisici (batteri e virus, alimenti, radiazioni, raggi ultravioletti, inquinamento, fumo di sigaretta, gravidanza, malattie, farmaci, contraccettivi, alcol, obesità, stress, fatica, sport eccessivo ecc. Basti pensare che nel fumo di una sola sigaretta si trovano centinaia di milioni di radicali liberi.

I radicali più pericolosi sono quelli con ossigeno: l’anione superossido, il più frequente, determinante nel promuovere la formazione di altri radicali; l’ossigeno singoletto specializzato nell’ossidazione di acidi grassi polinsaturi e del colesterolo-LDL; il radicale perossidico che è coinvolto nel propagare le reazioni di ossidazione dei lipidi; il radicale idrossilico che è uno dei più instabili e reattivi; il perossinitrito che provoca diretta ossidazione di proteine e DNA; l’acqua ossigenata - che come l’ossigeno e l’ozono non è un radicale ma una molecola intera - è analoga ai radicali più potenti per reattività e capacità di danneggiamento.

I radicali e gli ossidanti sono molto instabili, e cercando stabilità si combinano rapidamente creando a loro volta nuovi radicali liberi con reazioni a catena che finiscono per danneggiare in modo irreparabile le cellule. Sono colpiti prima i grassi della membrana cellulare, poi gli aminoacidi e lo stesso DNA. Perciò si ritiene che siano coinvolti nell’invecchiamento precoce, nella progressiva degenerazione del corpo e in molte malattie: cardiovascolari, infiammazioni, demenza, Parkinson, tumori ecc. Quando, però, sono in eccesso e non sono tenuti sotto controllo.
Infatti, i radicali e il processo di ossidazione sono previsti dall’organismo per un ruolo utile, di difesa, per esempio come arma del sistema immunitario contro i germi invasori.

Ma se non siamo tutti morti o deformi o malati fin dalla più tenera età, è perché esistono nell’organismo potenti difese fisiologiche contro il danno ossidativo. L’azione ossidante dei radicali in eccesso è neutralizzata da potenti enzimi scavenger ("spazzini"): superossido-dismutasi, catalasi e glutatione-perossidasi. Anche i carotenoidi e le vitamine A, C ed E presenti negli alimenti tengono a bada radicali e ossidanti. La prima difesa della cellula è affidata ad acidi grassi polinsaturi, ubiquinone e selenio. Non efficaci, invece, e spesso pericolosi, sono i medesimi antiossidanti assunti fuori dagli alimenti, come "integratori".

Un test permette di quantificare i livelli di ossidanti nel sangue sulla base di Unità Carratelli (U Carr). La popolazione normale ha 250-300 U Carr (pari a 20.08-24.00mg/dL di acqua osigenata. Un aumento progressivo delle U Carr indica una gravità progressivamente crescente di stress ossidativo. Si noti che 1 U Carr = 0.08 mg/dL.
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ALIMENTAZIONE. Da quanto detto, visto che già nel cibo, per mancanza di antiossidanti e-o prevalenza di ossidanti (sostanze tossiche naturali e artificiali, cottura, cattiva conservazione) si nascondono insidie gravi, tanto più che gli integratori non funzionano, emerge l’importanza di un regime alimentare totalmente riorganizzato in modo da risultare antiossidante nel suo complesso.

Chi segue l’alimentazione naturale ha poco da cambiare. Sono fortunati anche i vegetariani, se si preoccupano non solo della carne, ma anche della sanità della dieta. Basti pensare al ruolo protettivo dei cereali integrali e dei legumi, alla scarsità dei dannosi acidi grassi saturi dovuta alla prevalenza degli oli vegetali antiossidanti sui grassi animali, all’abbondanza di cibo crudo, semicrudo o comunque non cotto nei grassi, e perciò alla quasi assenza di fritture e stracotture, e infine alle 6 porzioni al giorno tra verdure e frutta prescritte dai Consensus internazionali.

Tutte misure che, però, pochi mettono in pratica. Perfino negli Stati Uniti, che hanno rilanciato e diffuso il salutismo come moda e nuovo dovere sociale "politicamente corretto", i cereali integrali, i legumi da mangiare spesso, e le 6 porzioni tra verdura e frutta, non hanno attecchito. Figuriamoci in Italia, dove la Piramide alimentare ufficiale incredibilmente punisce i legumi e censura i cereali integrali, mentre il messaggio che appare è "continuate a consumare pane e pasta", come sempre, cioè raffinati, privi di sostanze antiossidanti. La conservatrice industria italiana, che non ama le riconversioni, ringrazia.

Ecco, basterebbero le quattro misure sopra dette a modificare in profondità il nostro regime alimentare, e a creare una dieta naturale di lungo periodo efficace contro l’eccesso di radicali liberi. Sono infatti efficaci antiossidanti: flavonoidi (antociani, xantine), isoflavoni, catechine e polifenoli vari, carotenoidi (licopene, beta-carotene, xantofille), saponine, fitati, sitosteroli, ascorbati, tocoferoli, resveratrolo, acidi grassi essenziali (linolenico, omega 3) ecc.

Ogni antiossidante ha il potere di neutralizzare una classe di radicali liberi (es: il pomodoro contro l'ossigeno singoletto O2), però tutti insieme agiscono in modo sinergico. Ecco perché l’alimentazione naturale nel suo complesso è più efficace d'un singolo alimento antiossidante . Un’alimentazione ricca, p.es., di cereali integrali, legumi, pomodori, aglio, cipolla, peperoni, carote, vegetali con foglie verde scuro, cavoli, broccoli, ortaggi di color rosso, frutta colorata e acidula, semi oleosi e oli spremuti a freddo, pochissima carne ben sgrassata (meglio niente), pesce più abbondante, sono la miglior protezione contro i radicali.

Vediamo, in particolare, un pro memoria in 10 punti:
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1. Cereali integrali (grani interi con il rivestimento da cucinare come il riso, fiocchi ovvero grani pestati, farine integrali al 100 per cento). Il che significa anche riscoprire sapori più buoni e marcati, quelli dei cibi fatti di vere farine integrali: pizze napoletane, spaghetti, torte rustiche, pane, biscotti ecc. Eppure, già trovare il vero pane integrale in Italia è un’impresa. Quello del fornaio sotto casa è sempre finto: leggero, con farina normale e un pizzico di crusca, insapore, pieno di additivi, grassi aggiunti, conservanti. Solo le botteghe naturali lo hanno. Provatelo in mano: deve pesare molto. E deve essere molto scuro all’interno. La pasta integrale da cuocere, per fortuna, si trova in quasi tutti i supermercati, finalmente. Ma attenzione a quella finta o troppo costosa (v. una guida qui). La pasta da cuocere più ricca di antiossidanti è quella di grano saraceno, perfino i pizzoccheri (che pure hanno farina mista) sono molto indicati. Ricercatori dell'università di Nagasaki hanno dimostrato che gli antiossidanti contenuti nel grano integrale, ricchi in vitamina E, vitamine del complesso B, carotenoidi, zinco, rame, selenio ed altri oligominerali, distruggono i radicali liberi 50 volte di piú delle vitamine C ed E da sole.

2. Legumi il più spesso possibile, anche ogni giorno: lenticchie, fagioli di ogni varietà e colore (specialmente quelli rossi e neri), piselli, ceci, fave, ecc. Naturalmente con la buccia, ricchissima di saponine, fitati e polifenoli antiossidanti. Per non sprecare antiossidanti, non gettare via l’acqua in cui sono stati messi a bagno, ma utilizzarla in cottura.
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3. Verdure e frutta ogni giorno in almeno 6 porzioni (250 g per le verdure da cuocere, 100 g per quelle da mangiare crude, 1 frutto grande come l’arancia o la mela, o 150 g di frutta piccola. Ma, in casi particolari, dato l’obiettivo di tamponare i radicali in eccesso, è meglio raddoppiare alcune porzioni e arrivare ad un totale di 8-10 porzioni al giorno. Anche il bicchiere di eventuali succhi integrali di frutta (v. oltre) va considerato 1 porzione. Nessuno impedisce, poi, di consumare oltre alla verdura cotta o al minestrone di verdure (molto abbondante, e allora sono già 2 porzioni) anche un’insalata mista. E due frutti, anziché uno solo. Perciò, 4 porzioni a pranzo e 4 a cena. Più 2 (frutti) a colazione. E sono 10 porzioni al giorno. Senza contare spuntino di metà mattina e merenda. In casi di emergenza, quindi, si può arrivare anche a 12 porzioni al giorno e più.

Piuttosto, ci vuole più precisione sulle specie di verdure e frutta da preferire:

3.1. Verdure più verdi, colorate o piccanti: sono le più antiossidanti. Alto potere anti-radicali ha la verdura di colore verde scuro (crescione, rughetta, spinaci, broccoli, foglie di rapa, foglie di ravanello, cavolo verza, cavolo nero, agretti, bieta ecc). Tenendo conto che quella piccante e solforata è la più efficace (anche se bianca, come aglio e cipolla). Ottimi anche gli ortaggi diversamente colorati: peperoni rossi e gialli, cavolo rosso, carote arancione scuro, zucca gialla carica, pomodoro rosso fuoco (anche all’interno), barbabietola rossa. Vanno benissimo anche la salsa di pomodoro cruda in bottiglie al naturale (supermercato) e ancor più i tubetti di doppio concentrato di pomodoro, straricco di licopene (da spalmare su tartine integrali e aromatizzare con prezzemolo e timo). Le verdure sono più antiossidanti dei frutti. L’Oxy-Absorbent Test mostra che il cavolo verza verde di Milano è più di 3 volte antiossidante dell’uva. Tra gli alimenti testati, cavolo verza, porro, pomodoro, peperone e sedano, erano più antiossidanti di uva, limone, pera e ananas. Il test Orac, invece, ha privilegiato spinaci, frutta scura e di bosco, barbabietole rosse.

3.2. Aglio, cipolla, porro e scalogno fanno eccezione alla regola che vuole verdure colorate: hanno potere antiossidante e vanno consumati spesso. Ma perdono le loro proprietà con la cottura.

3.3. Frutta. Deve essere, a maturazione, la più acidula o colorata (giallo-rosso-bluastro-nero): arance, albicocche, pompelmo, mandarini, more, mirtilli, uva nera, prugne nere, fragole, ciliegie, meglio pesche a polpa gialla che bianca, ananas, kiwi, cachi ecc). La buccia contiene la maggior parte degli antiossidanti: se edibile va sempre mangiata. Il suo potere antiossidante è tale da superare qualsiasi inquinamento. Mangiare anche un po' di scorza di agrumi, ricca di potenti antiossidanti, ma solo se "biologica". Dopo aver mangiato pezzettini di scorza cruda o scorzette candite non esporsi al sole: sarebbe rischioso per la pelle.

4. Oli vegetali crudi (soprattutto extra vergine d'oliva e soia spremuto a freddo) al posto di grassi animali. Uno studio dimostra che l’olio di oliva è molto sensibile alla luce. Perde più antiossidanti (steroli e polifenoli) in bottiglie di vetro chiaro. L’ideale sarebbero bottiglie di vetro color bruno, non verde.

4.1. Semi oleosi (noci, nocciole, mandorle, pinoli, sesamo, girasole), purché freschi. Le noci sono le più delicate e spesso si ossidano (irrancidiscono) durante la conservazione prolungata al caldo: osservare che all’interno non siano di color grigio-oleoso, ma color avorio.

4.2. Germe di grano: cospargerne qualche cucchiaino sulle pietanze (insalata, zuppa di latte, yogurt, pastasciutta, minestre, riso integrale ecc).

5. Cucina: la meno ossidante possibile. Cuocere poco, e il più brevemente possibile. Consumare ad ogni pasto molti alimenti crudi o appena scottati. Diminuire il tempo di cottura immergendo le verdure in pochissima acqua (effetto vapore). Non lasciare mai il cibo a temperatura ambiente, ma metterlo in frigorifero. Evitare l'eccessiva esposizione degli alimenti all'aria e alla luce. Le verdure vanno prima lavate e poi tagliate o affettate. Non usate le fritture, specie di carne e pesce. Evitare di bruciare o brunire i cibi arrosto. Imparare a condire tutto "a crudo": per esempio condire i cereali in piatto (pasta, minestre ecc) con vegetali crudi o scottati. L'olio si aggiunge crudo sui piatti già pronti. Legumi e cereali integrali in chicchi perdono meno ossidanti se cotti in pentola a pressione. Utilizzare, magari con adattamenti e semplificazioni, le ricette della tradizione contadina.

6. Meglio il pesce della carne, a meno che non si sia vegetariani. I pesci di acque fredde (sgombro, sardine, aringhe, tonno, trota, salmone, merluzzo, acciuga ecc), di cui però è bene consumare anche il fegato perché è quest’organo che tratta e concentra i grassi, sono ricchi di due acidi grassi essenziali omega-3: gli acidi EPA (eicosapentaenoico) e DHA (docosaexaenoico). Va bene anche l’olio di fegato di merluzzo. I vegetariani possono farne a meno: l’acido grasso essenziale linolenico (semi oleosi e oli vegetali) in un organismo in buona salute e non trattato con farmaci può dar luogo a EPA e DHA.

7. Vino rosso meglio del bianco (solo un bicchiere a pasto): ha più del doppio di potere antiossidante. Bere molta acqua durante il giorno: le cure termali idropiniche hanno ridotto lo stress ossidativo.

8. Tè e caffè (se il cuore lo permette). Il tè verde, grazie ad abbondanti catechine, è più antiossidante del tè nero. Ma anche il caffè e il cacao (cioccolata amara, quantità minima del cacao: 85%) sono antiossidanti.

9. Spezie ed erbe aromatiche, soprattutto zenzero, curcuma, timo, salvia, rosmarino e origano, sono ottimi antiossidanti.

10. Succhi naturali di verdura e frutta, per potenziare il valore antiossidante nella dieta di verdura e frutta (v. sopra), si ottengono alla centrifuga (cavolo verza, cavolo rosso, crescione, carote, zucca gialla ecc) o al  frullatore da arancia, pompelmo, more, frutti di bosco, frutti tropicali, mela ecc. Quindi servono ortaggi e frutti freschi.

Ma frutti e ortaggi interi sono più efficaci dei corrispondenti vegetali in succo (rischio di ossidazione, minore presenza di bucce e fibre, minore sinergia tra composti attivi e polifenoli più presenti nella buccia ecc.). Perciò i succhi non devono essere una scusa per evitare di mangiare frutta intera, insalate crude e verdure cotte: sono semmai uno sporadico supplemento in più. In particolare, attenzione ai succhi di frutta, sia pure “naturali” (cioè “senza zucchero aggiunto”). Sono "naturali" solo in quanto a origine, solita furbizia della pubblicità. In realtà sono poco naturali sul piano nutrizionale, perché i succhi sono ricavati per concentrazione (perdita di acqua) e quindi accade che 100 g di succo contengono molti più zuccheri di 100 g di frutta fresca e intera. Saranno pure zuccheri naturali come origine, ma non è certo naturale che siano concentrati. Come se non bastasse, possono per l’estrema facilità di consumo indurre ad aumentare le porzioni, come se si trattasse di acqua da bere senza pensieri. Un bicchiere di succo “naturale” di frutta non è come mangiare un frutto, ma potrebbe avere anche lo zucchero di 3 o 4 frutti, addirittura! L’obiezione, quindi, è dietetica e nutrizionale. L’abitudine, l’uso regolare di succhi, può sbilanciare l’intera dieta e far ingrassare, e alla fine neutralizzare gli stessi effetti degli antiossidanti contenuti. Questo non solo per i succhi naturali industriali del supermercato, ma anche per quelli fatti in casa. Alla lunga c'è rischio fondato di incamerare molte calorie in più, di sbilanciare l’intera dieta, di non aver fame per alimenti fondamentali come cereali integrali, legumi e insalate, e per di più di andare sovrappeso. La maggior parte dei casi di sovrappeso infantile è dovuta ai succhi di frutta e alle analoghe bevande zuccherate. Inoltre non si sa quanto siano efficaci come antiossidanti – pochissimo, si direbbe, a quanto concludono numerosi studi scientifici – le vitamine A, C ed E aggiunte spesso anche come conservanti ai succhi “naturali”, pubblicizzati come “ACE”.

AGGIORNATO IL 11 GENNAIO 2015

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domenica 6 maggio 2007

CALCOLI RENALI. Una dieta naturista, anche vegetariana, ma non vegan.


Il compagno di Roberta ha avuto un doloroso attacco di calcoli renali. E non sopportando l’ospedale ha voluto tornare a casa, sotto la propria responsabilità, prima che i medici lo dimettessero. "Grossa sciocchezza", commenta lei al telefono. Le donne nelle questioni sanitarie sono molto più sennate degli uomini. Sta per uscire a fare la spesa: "E adesso che gli cucino? Nico, aiutami". Sono abituato a questi Sos. Una volta la nostalgica Birgitta mi telefonò dalla sua cucina di Malmo (Svezia) con le mani sporche di farina: "Aiuto, Nico, la pizza napoletana non mi si impasta, che faccio?" Insomma, cuochi senza frontiere.

Ma qui la cosa era meno futile: c’era Gianpiero che uscendo prematuramente dall’ospedale per propria scelta, con un po' d'ipertensione e glicemia fuori norma, ma con tanti esami di laboratorio ancora da fare, "non sapeva che cosa mangiare". E i suoi calcoli possono essere i più diversi: ossalati, fosfati, acido urico, ecc. Nessuno se non il medico curante, e solo dopo aver visto gli esami, si può prendere la responsabilità di consigliargli una dieta, sia pure temporanea, tantomeno un amico per telefono.

Perciò ho consigliato all’amica Roberta, in attesa di una nuova visita urgente presso lo specialista, una dieta prudente, che non sbaglia mai: naturista, quasi vegetariana, con molti cibi integrali, molta frutta, molte verdure crude e cotte, tranne bietole, barbabietole e spinaci che hanno troppi ossalati (anche se la modificazione del pH dell'urina e i calcoli di ossalato sono provocati più dal metabolismo sballato, o da qualche medicina, che dal cibo), poche proteine, meglio pesce che carne, e comunque niente insaccati, niente o poco sale, niente zucchero e dolci in eccesso, niente alcolici o bevande artificiali. E molto movimento ogni giorno: dalla ciclette alle lunghe camminate.

Nella fretta ho dimenticato di accennare all’acqua, tanta acqua da bere ogni giorno. I nefrologi consigliano anche 2 litri (3 in estate), un po’ per volta, lontano dai pasti, e anche di sera prima di dormire. Anzi, in certi casi, di piccolo calcolo già formato, la “bomba d’acqua”, un litro bevuto in poco tempo (p.es. un’ora o meno), può aiutare ad espellerlo.

"E le lenticchie vanno bene? Le sto preparando". Ho pensato un secondo alle purine, ma la minore frequenza dei calcoli di acido urico (per lo più i calcoli sono di ossalato di calcio, ma la mia amica non lo ha specificato) e l’alleggerimento costituito dalle proteine vegetali e dai sali ha prevalso: "Sì, tutti i legumi".

La novità è che un tempo si vietava il calcio, e quindi si riducevano latte e formaggi. Oggi, invece, si hanno le prove che il calcio riduce i rischi, non li aumenta.

L’assunzione di grandi quantità di calcio, potassio e liquidi attraverso la dieta riduce il rischio della formazione di calcoli, perfino quelli di calcio, mentre l’integrazione di calcio (integratori), sodio, proteine animali può essere pericolosa. Curhan ed altri ricercatori su Archives of Internal medicine hanno analizzato in 8 anni l’associazione tra fattori dietetici e formazione di calcoli renali in oltre 96mila donne tra 27 e 44 anni di età, che non avevano avuto in precedenza calcoli. Ebbene, è stata provata una relazione tra assunzione elevata di calcio con gli alimenti (quindi latte e formaggi, ma anche acqua di rubinetto molto ricca di calcio, come quella di Roma, e alcune verdure, come i broccoletti) e ridotto rischio di calcoli renali. Inoltre si ipotizza che i fitati, abbondanti nel rivestimento di cereali (integrali) e legumi, possano rappresentare un nuovo elemento nella prevenzione dei calcoli.

Secondo uno studio di Loris Borghi dell’Università di Parma, apparso sul prestigioso New England Journal of Medicine, la dieta ideale per prevenire i calcoli vuole poca carne, poco o niente sale da cucina, molta frutta, verdura e cereali integrali (la fibra deve essere di ben 40 g al giorno). Si possono consumare liberamente pane, pasta e pesce, sono ben visti latte e formaggi (devono garantire un’alta quota di calcio, circa 1200 mg al giorno). [Obiezione: attenzione ad evitare i formaggi più grassi, dannosi per il cuore ed altre malattie. Quelli "magri", d'altra parte non esistono: il minimo è sui 17g per 100 g. E sono anche alimenti molto ricchi di proteine].

Frutta e verdura in abbondanza, perché si è visto che potassio, citrati e magnesio svolgono un’azione protettiva, ma escludendo o riducendo a piccole quantità bietole, barbabietole, spinaci, prezzemolo.
Attenzione agli integratori, specialmente la vitamina C in compresse: è notorio secondo molti studi che può provocare sali di ossalati. Invece, sì al succo di limone e di agrumi ogni giorno, perché i citrati inibiscono la formazione dei calcoli ossalici. Tanto che la farmacologia ha imitato la natura fornendo ai pazienti bustine di citrato (di potassio o magnesio, non di sodio, che è controindicato!), che infatti oggi medici urologi e farmacisti prescrivono ai pazienti.

E’ determinante un'ottima idratazione, 2 litri, fino a 3 litri d’acqua al giorno nella stagione calda, che determina una diluizione delle urine, riducendo, così, la saturazione dei sali litogeni (che producono calcoli) e ostacolandone la precipitazione. Per il medesimo motivo, lo capiscono tutti, l’eccessiva sudorazione, riducendo il liquido filtrato dai reni, è dannosa. Se si suda molto, bisogna bere ancora di più.

Limitare davvero al minimo il sale. E' il cloruro di sodio, non il calcio il nemico di chi soffre di calcoli. Basta sostituire i cibi già salati in partenza (patatine, noccioline salate, certi crackers, i salumi, le acciughe, il tonno in scatola e i capperi sotto sale) con gli analoghi cibi non salati, non mettere la saliera a tavola, e sostituire il sale il più possibile con erbe aromatiche e spezie. Attenzione al pane, sempre troppo salato nell'Italia del Sud: sostituirlo con quello sciapo, cioè senza sale del Centro-Italia (toscano o "di Terni"), e al troppo sale messo nell’acqua di cottura degli spaghetti. Qui il trucco è aggiungerlo a metà o fine cottura o eliminarlo del tutto. Vino, birra e caffè in misura moderata (che per il vino, interpretiamo, vuol dire un bicchiere a pasto).

E molto movimento, igiene e forma fisica ogni giorno: infatti fattori predisponenti sono la sedentarietà, l’ eccesso di peso, le infezioni urinarie. Anche le infiammazioni intestinali.

In fin dei conti, raccomandazioni del genere sono generiche e salutiste, insomma "naturiste". L’alimentazione suggerita si avvicina in sostanza a una normale alimentazione "naturale", integrale, iposodica, tendenzialmente vegetariana, che tutti noi, e non solo chi è affetto da litiasi urinaria, dovremmo usare! E che insieme ai calcoli renali previene anche il sovrappeso.

RIFERIMENTI

1. Curhan GC et al. Dietary Factors and the Risk of Incident Kidney Stones in Younger Women: Nurses' Health Study II. Arch Intern Med. 2004;164:885-891


2. Borghi L et al. Comparison of Two Diets for the Prevention of Recurrent Stones in Idiopathic Hypercalciuria. N Engl J Med 2002; 346:77-84.


IMMAGINI: due tipi di calcoli renali.

AGGIORNATO IL 9 GIUGNO 2015

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mercoledì 2 maggio 2007

PEPERONCINO. No alle solite leggende: può far bene, ma anche male, molto male

“Fa bene al sesso, cura tutte le malattie”, scrivono negli opuscoli di propaganda i maniaci del peperoncino piccante (diverse specie e varietà piccanti del genere Capsicum, il medesimo del peperone comune non piccante). Lo stesso ripetono nei bar di provincia del Sud d’Italia e del Mondo, dall’India alla Calabria, all’Abruzzo, dal Messico alla Spagna, da Cuba al Brasile al Sud-Est asiatico. E ora, ovviamente, l’eccesso di peperoncino è reclamizzato anche nei più balordi siti di Internet, luogo ideale per ciarlatani e creduloni. E’ una mania.
      Ma fa davvero sempre bene? No, può fare male, anche molto male. Perché il sapore piccante, non è di per sé sinonimo di “cibo sano e terapeutico”, anzi, dal punto di vista biologico ed evolutivo è una spia di cibo potenzialmente tossico, che – oggi sappiamo – solo una dieta generale antiossidante ricca di verdure e frutta può neutralizzare e consentire, entro certi limiti (es: una alimentazione naturale all’antica, ma rivista secondo la scienza moderna).
      GLI EUROPEI HANNO FATTO CONOSCERE IL PEPERONCINO IN ORIENTE E IN AFRICA. Il peperoncino o peperone piccante, originario del Centro-Sud America, fu scoperto da Cristoforo Colombo, che dopo aver esplorato l’isola che oggi si chiama Haiti così annotava sul giornale di bordo, nel 1493: «Gli indigeni condiscono il loro cibo con una spezia più forte del pepe, che chiamano aji». Portato in Europa è diffuso subito dagli Europei in tutto il Mondo, comprese India e Africa, che oggi “non possono vivere senza” e ne fanno una propria bandiera, ignorando la Storia. Grazie alla sua facilità di acclimatazione e coltivazione, e al bassissimo costo, negli strati popolari sostituì il pepe, allora costosissimo, che supera in piccantezza, ma non certo in aroma, perché ne è praticamente privo.
      Questa superstizione popolare ha origine evidentemente da remote contrapposizioni economiche e invidie sociali: nell’Antichità i tanti poveri invidiavano il costosissimo pepe dei pochissimi ricchi o nobili. Anche per questo il gusto piccante, allora collegato soltanto al pepe ma oggi identificato nel peperoncino, si è diffuso così tanto. 
Scala Scoville del piccante
Così, il peperoncino piccante ha finito per modificare la gastronomia e il costume alimentare d’ogni Paese, migliorando, nobilitando e rendendo interessanti pietanze povere, squallide,  insapori. Pensiamo solo al curry e alle centinaia di cibi piccantissimi, tutti a base di peperoncino, di cui gli Indiani, i Cinesi e gli altri Orientali, gli Africani e tutto il Sud del Mondo oggi non potrebbero fare a meno. E come sono esigenti in Europa gli originari del Centro e Sud-America nel richiedere certe “loro” varietà ultra-piccanti (altrimenti neanche l’acquistano)!
      Attualmente il Carolina Reapert è considerato il peperoncino più piccante del mondo: 1.569.300 gradi della scala Scoville, e se la batte col Bhut Jaolokia (v. tabella accanto). Per capire quanto siano piccanti basta considerare che un jalapeno arriva al massimo a 8.000 punti. Quando si mangia un peperoncino del genere, è bene masticarlo a lungo, mettendo in conto bruciore insopportabile, lacrimazione, perfino conati di vomito, per evitare danni allo stomaco. Pazzie da battitori di primati.
      E anche la nostra Calabria non si sente seconda a nessuno: a sentire le vanterie degli opuscoli sembra quasi che il peperoncino sia stato scoperto sulla Sila! Suvvia, un minimo di ragionevolezza. D’accordo, il cibo si modifica con gli scambi commerciali e l’estensione delle colture agricole, però dovrebbero ogni tanto meditare sul fatto che non è un loro cibo originario, ma è culturalmente importato, frutto della prima “globalizzazione” (quella innescata dalla scoperta dell’America), insomma una tradizione abbastanza “recente”. E allora c’è davvero da chiedersi: ma come diavolo avranno condito i cibi per migliaia di anni, prima che l’italiano Colombo facesse conoscere il peperoncino?
      Sono state create numerosissime varietà locali, in una stupida corsa dei popoli e relativi agronomi, a creare “la varietà più piccante di tutte” (v. tabella), ovviamente a scopo pseudo-salutistico, cioè commerciale, non scientifico biologico, perché negli esperimenti di laboratorio i ricercatori usano la capsaicina pura.
      Nell’uso culinario, il peperoncino è usato sia come frutto intero, fresco o essiccato, sia in polvere. Però, a differenza del peperone dolce, ugualmente di origine americana, non è un alimento, ma una spezia, da usare in tracce, tutt’al più a grammi. E sempre a crudo. A proposito, non perché si degradino molto capsaicina e capsaicinoidi, anzi, relativamente piuttosto stabili, quanto perché la cottura rovina il suo sapore.
      LA PICCANTISSIMA CAPSAICINA, STRANO, MA NON HA UN SUO SAPORE. Il gusto bruciante del peperoncino, il senso del piccante, è dovuto alla reazione di difesa del corpo umano all’alcaloide capsaicina (8-metil-N-vanillil-6-nonenamide) e in minor misura al suo derivato diidrocapsaicina e ad altri capsacinoidi minori. Ma per un curioso paradosso la capsaicina è di per sé priva sia di odore che di sapore. La reazione del corpo umano (gli uccelli, p.es. non l’hanno) avviene con un meccanismo biologico molto complesso, che inizia quando la capsaicina va a colpire i recettori vanilloidi TRPV1 posti sui neuroni delle terminazioni nervose libere presenti all’interno delle papille gustative sulla lingua e anche nel resto della cavità orale, faringe e pelle del viso, tutte collegate al nervo trigemino (Paliotto S., tesi Univ. Padova).
      La capsaicina e quindi lo stesso peperoncino hanno una fortissima azione irritante sulle mucose (per contatto diretto), comprese quelle dell’occhio: perciò la capsaicina è oggi usata come spray per auto-difesa (acceca e immobilizza temporaneamente, a causa del dolore provocato). Ma l’azione irritante sulle mucose interne può avere qualche vantaggio, perché stimola una potente reazione adattativa del corpo, che aumenta le secrezioni protettive dei fluidi (naso-bronchiali, digestivi ecc.) aiutando a liberare le vie nasali, a fluidificare il muco (come si spiega meglio più avanti), a eliminare virus e batteri, a facilitare la digestione gastrica.
Peperoncino e diverse sue parti (da Supalkova et al 2007 tradotto 2)      QUAL E’ LA PARTE PIU’ PICCANTE DEL PEPERONCINO? La capsaicina si trova in concentrazione più alta, però, non nei semi, come vuole una diceria popolare (anzi i semi ne sono i più poveri), ma nell’ovario o placenta (quella caratteristica membrana – si veda la figura – che sorregge i semi). 
      I semi curiosamente hanno le sostanze capsacinoidi in superficie ma non all’interno. E se il piccolo studio citato (v. tabella) riguarda soprattutto varietà in uso nell’Europa Centro-Orientale, la tendenza è comunque generale, e tocca quasi tutte le varietà di peperoncino: la capsaicina, cioè la sostanza più piccante, decresce dall’ovario o placenta alla polpa inferiore, alla polpa superiore, ai semi. Anche il famoso jalapeño messicano e statunitense mostra all’analisi della gascromatografia che la capsaicina è 0,21 mg/100g nella parete esterna e ben 18.37 mg/100g nelle membrane interne (Huffman et al. 1978). Questo vecchio studio sullo jalapeño ci dice anche che esiste un “sapore” del peperoncino, a parte la capsaicina, attribuito a 2-isobutil-3-metoxipirazina. E anche questa sostanza è distribuita in modo non uniforme: da 0 nel seme a 88,33 ng/g nelle pareti esterne (peso a secco). La cottura altera gravemente questo sapore. Mentre altri studi sostengono che capsaicina e capsaicinoidi sono chimicamente piuttosto stabili: restano inalterati per lungo tempo, anche dopo cottura – immaginiamo moderata – e congelamento.
      Cade, comunque, la leggenda popolare che basti eliminare i semi per privare il peperoncino della sua componente più piccante e tossica. Quindi gli amanti del piccante che criticano il peperoncino in polvere perché a differenza di quello intero comprende anche i semi, a loro dire “dannosi”, sbagliano. E, d’altra parte, nel peperoncino fresco noi gettiamo via istintivamente proprio i filamenti interni e i semi, riducendo così i rischi.
      QUALI SONO I CIBI CHE VEICOLANO E “SPENGONO” IL PICCANTE. In caso di ingestione avventata di troppo peperoncino o di pietanza troppo piccante, che fare? L’acqua non serve a spegnere il bruciore, lo imparano subito i ragazzi, a proprie spese. La capsaicina è sostanza non idrosolubile ma liposolubile, cioè solubile nei grassi (p.es. un pezzetto di burro o un cucchiaio di olio di oliva). Ma è più gradevole ricorrere a yogurt, latte (e più grassi sono, cioè al 3,5%, meglio è), panna e formaggi molli (stracchino, robiola, mascarpone, gorgonzola ecc.) che si sciolgono in bocca rapidamente formando uno strato protettivo grasso che smorza immediatamente (in realtà impedisce di sentire) la sensazione dolorosa del piccante. Sono i soli cibi che ci permettono di assumere peperoncino e pepe lontano dai pasti. Invece, la mollica di pane non è adatta: è lenta a “spegnere l’incendio” perché comincia a essere un po’ efficace solo dopo essere stata ben masticata, cosa che nel caso dei cereali (da soli) può richiedere anche più d’un minuto. Lo stesso per tutti i cereali e i fiocchi di avena puri, cioè non conditi. Infatti, la pastasciutta e il riso vanno bene non perché cereali, ma per il loro condimento o salsa grassa. Come rimedio immediato, se ci troviamo alla fine del pasto, va benissimo anche la cioccolata, ottimo veicolo per ingerire, coprendo abbastanza bene il sapore piccante, incredibili quantità di pepe, peperoncino e zenzero quando non si sa come assumerli lontano dai pasti  (v. tradizione di panforti e panpepati), solo un po’ meno bene i datteri, (v. nell’antica Roma i datteri cosparsi o farciti di pepe), pochissimo adatti invece i fichi secchi, che vogliono lunga masticazione.
      Così, diluendo o accompagnando con cibi adatti il peperoncino e le altre spezie piccanti, salviamo lingua, bocca ed esofago, che sono ancora più delicati dello stomaco rispetto al piccante, non avendo mucose così ben protette. Infatti, il peperoncino e altre spezie piccanti non devono trovarsi mai a contatto diretto con le mucose digestive, se non vogliamo cadere nel rischio di irritazioni che col tempo potrebbero diventare lesioni, ma sempre devono essere ben amalgamate (se in polvere) o inserite (se a pezzi o in semi) in un veicolo grasso (olio, burro, yogurt, formaggi molli, a sua volta diluito in una pietanza. Quindi, mai a stomaco vuoto o lontano dai pasti, se non ricorrendo ai cibi detti, in emergenza.
      ASPETTI ANTROPOLOGICI E PSICOLOGICI. In Oriente sono molti coloro che senza saperlo sono seguaci di Mao Tse Tung, che amava il piccante per tre motivi: in quanto orientale, maschio, e rivoluzionario. E anche il suo allievo latino-americano Che Guevara, nonostante che fosse medico (o forse proprio per questo), credeva che il piccante fosse una miracolosa e quasi gratuita medicina, tipica degli Eroi della “Revoluciòn”.
      Un machismo come un altro: “rivoluzionari” o no, i maschi di mezzo mondo in cuor loro si sentono eroi di una strana supremazia virile, quella che consiste nel restare insensibili al dolore da bruciore. Anche i nostro lontani Antenati nelle più lontane campagne erano convinti che tutto ciò che brucia, che fa soffrire, “tempra”, rafforza fisico e carattere. Altro che femminucce sensibili… Controprova? I Cinesi oltre al piccante amano anche il bollente: tè e zuppe, ma anche semplice acqua bollente, che bevono al posto del tè. Ma la scienza è meno eroica, e infatti patiscono per queste due fissazioni derivanti da pregiudizi paesani molti tumori a bocca, esofago e stomaco.E poi ci sono i sostenitori fanatici autonominatisi “esperti” del peperoncino piccante, capaci anche se non leggono gli studi e odiano la scienza, di scrivere opuscoli che ne elencano senza il minimo senso critico mirabolanti proprietà, sempre ignorando o tacendo sui suoi effetti secondari gravi.
      GLI EFFETTI SULLA SALUTE. EVIDENZE SCIENTIFICHE DEL PRO E CONTRO. Una sintetica ma fondamentale review passa in rassegna gli studi più seri sul peperoncino e sulla capsaicina, sulla base di 50 riferimenti scientifici, mostrando che questo condimento, analogamente al suo principio attivo, ha “due facce”, come il dr. Jekyll-Mr.Hide. In alcuni casi sembra protettivo, cioè previene, ma in molti altri casi agisce in senso opposto, cioè aumenta il rischio, addirittura di cancro (la pubblicazione è specializzata in questo campo), specialmente in presenza di promotori del cancro. E gli studi che provano questa pericolosità  sembrano leggermente prevalenti
      QUANDO IL PICCANTE SERVE A COPRIRE UNA PESSIMA CUCINA SENZA SAPORI NE’ AROMI… Piace a tutti, certo, insaporire con un sapore deciso un piatto evidentemente scondito. Ma perché è insapore, perché è scondito? Questo è il fondamentale punto da sottolineare: non si usano per ignoranza e ineducazione le tante erbe aromatiche e i tanti sapori delicati offerti dalla Natura, e si preferisce coprire tutto con un solo sapore pungente, rozzo e invadente che fotografa in modo impietoso la mancanza di gusto e raffinatezza del cuoco. 
      Fateci caso: i grandi utilizzatori del piccante in genere non capiscono nulla di gastronomia, sono gente di bocca buona. Il piccante anestetizza la lingua e il gusto (v. sotto, l’effetto di assuefazione legato alla distruzione dei neuroni delle papille gustative, anestesia da cui però discende anche un uso terapeutico anti-dolorifico di questa spezia). Quindi chi usa regolarmente o troppo peperoncino finirà per non apprezzare più i buoni e delicati sapori dei vari alimenti.
      Ormai si può dire che la cucina italiana di massa cade in tre eccessi: è tutta rossa e acidula di pomodoro, verde e amara di rucola, piccante di peperoncino. Un appiattimento mai verificatosi in passato. E i mille sapori delle pietanze, e i gusti delicati, e le sfumature e gli accostamenti? Spariti. Come le mezze stagioni.
      Per fortuna tutti e tre questi invadenti alimenti sono antiossidanti e benèfici. Il peperoncino, però, lo è solo se consumato con prudenza. Perché? Perché, anche un bambino lo capisce, è diverso dagli altri cibi con proprietà protettive e antiossidanti: è molto piccante, anzi è il cibo più piccante che esiste.
      Ma alla luce dell’ecologia, dell’evoluzione e anche della tossicologia e della biologia dell’uomo, il piccante ha sempre un valore negativo. In Natura il sapore piccante è interpretato come un segnale di pericolo, un avvertimento della specie al predatore (e l’uomo, tanto più se vegetariano o naturista, dopo gli animali erbivori è il “predatore” per antonomasia di vegetali), proprio come gli aculei d’un istrice o le affilate unghie d’un gatto dovrebbero dissuadere i loro attaccanti carnivori. La differenza è che il piccante “avverte” in tempo il predatore: si pensi ai tanti funghi velenosi di sapore piccante.
      E che il peperoncino possa non solo far bene (è, tra l’altro efficace antidolorifico e mucocinetico), ma anche far male, non è frutto di chissà quali revisionismi anti-Natura di oggi: è ingenuo, sottoculturale e anti-naturista idealizzare la Natura come “buona” in ogni caso, come ben sapeva il saggio Socrate mentre beveva la cicuta. Del resto la selezione dei cibi tra tutti quelli possibili, spezie comprese, è interamente opera dell’Uomo. Già nel mio Manuale di Terapie con gli Alimenti (1995) sulla base di numerosi studi, anche di ricercatori indiani, che di piccante s’intendono e vedono ogni giorno numerosissimi cancri alla bocca, allo stomaco e al fegato (l’Estremo Oriente è primo al Mondo!) si poneva il problema dei danni da cibi piccanti. Come, p.es, lo studio di oncologi di Bombay (India) sui topi, il quale evidenzia che «chilli acts as a promoter in stomach and liver carcinogenesis», cioè il peperoncino agisce come un promotore della carcinogenesi in stomaco e fegato (Agrawal et al.), lo studio di Toth e coll. che avevano osservato tumori duodenali in animali trattati con capsaicina, e lo studio degli indiani Chitra e coll.
      Ma i primi giudici sono gli scienziati indiani, visto il quotidiano e larghissimo consumo di peperoncino in India. Ebbene, in studi caso-controllo in India è risultato che il consumo di cibi piccanti e peperoncino portava a un più alto rischio di cancro gastro-intestinale (Mathew et al. 2000; Phukan et al.2001). Una ricerca ha suggerito che le spezie possano o aumentare la permeabilità intestinale epiteliale attraverso un allentamento dei contatti tra cellule (p.es. nel caso di paprika, pepe di cayenna, peperoncino) o diminuire la permeabilità (p.es. pepe nero, noce moscata), probabilmente attraverso il rigonfiamento cellulare. Sembra che le spezie Solanacee (appunto, il peperoncino) aumentino la permeabilità delle cellule alle macromolecole (Jensen-Jarolim et al.1998). Anche se questi dati riguardavano l’insorgenza di allergie alimentari e intolleranze, potrebbero valere anche per il potenziale effetto sul cancro, conclude una review sulla più importante rivista scientifica di nutrizione clinica (Lampe 2003).
      Come spiegare questa ambivalenza del peperoncino, o forse questo limite della ricerca? Gli studiosi Bode & Dong avanzano varie ipotesi, tra cui i metodi stessi degli esperimenti, negli studi di laboratorio e clinici la differenza tra studi col peperoncino-alimento, cioè al naturale, e studi con la capsaicina pura standardizzata; ma negli studi epidemiologici anche la scelta non razionale dei soggetti e delle aree geografiche. In uno studio condotto in Nord Italia risultava la non tossicità della spezia; ma hanno avuto buon gioco i ricercatori dell’America Latina, che conoscono bene i “loro polli”, a contestare lo studio affermando che nel Nord Italia non si consuma così tanto peperoncino come nel Centro e nel Sud America, dove invece i danni sono evidenti.
      Consigliamo, perciò, gli appassionati del peperoncino di leggere – è nel facile inglese scientifico – la citata review di Bode & Dong: è integrale, piuttosto breve, non è difficilissima, e può essere scorsa anche da medici di base e pubblico non specializzato. Rivela, tra l’altro, che perfino le creme antidolorifiche alla capsaicina (per uso topico, cioè per applicazione esterna, tipico il massaggio sulla pelle), se usate per lunghi periodi, come in certi dolori da diabete o da artrite, aumentano i rischi di cancro, sotto forma di tumori della pelle, probabilmente favoriti dall’irradiazione solare che agisce come cancer promoter.
      ALTRI STUDI, DALLO STOMACO AL FEGATO, ALL'APPARATO URINARIO. Un problema dibattuto è se aumenti o diminuisca il rischio ulcera gastrica, e irriti o lesioni fegato e reni. Su questo ci sono studi con esiti diversi: alcuni (Myers e coll). hanno documentato danni al DNA e sanguinamenti nello stomaco simili a quelli ottenuti con l’aspirina; altri dopo un pasto “messicano” con 30 g di peperoncino jalapeño in 12 volontari non hanno visto erosioni allo stomaco (Graham e coll.).
      Del resto, tutte le spezie se usate in eccesso, cronicamente e insieme tra loro (il che spesso amplifica gli effetti, positivi e negativi), danno rischi. Come la yaji, popolare salsa ricca di spezie (peperoncino, pepe nero, chiodo di garofano e zenzero) usata quotidianamente in Nigeria, che ha fatto mettere le mani nei capelli ai biopatologi nigeriani in uno studio che riporta il maggior rischio di necrosi del fegato (Nwaopara e coll.) e altri danni tra cui una potente reazione immunitaria, infiammazioni, e nei casi più gravi nefropatie, lesioni cutanee, fibrosi, cirrosi epatica (A.A. Eddy). Ma sono evidentemente, come nella dieta di alcuni strati popolari urbani in Asia e Africa, casi legati ad alimentazione carente di cibi antiossidanti, poco o nulla riferibili alla nostra alimentazione. Però denunciano quello che potrebbero fare le spezie se assunte in modo sbagliato e in diete sbagliate, come può accadere anche da noi in anziani, malati, giovani, soggetti culturalmente isolati ed emarginati.
      Più vicini a noi i rischi di irritazione e infiammazione nell’ultimo tratto intestinale e ancor più alle vie urinarie, e talvolta – nei casi di abusi prolungati – con maggior rischio di prostatite (la prostata è molto sensibile alle spezie irritanti) e perfino, a lungo andare, di tumore della prostata.
      Il pungente peperoncino aiuta come efficace mucocinetico a eliminare il catarro bronchiale, ma intanto provoca quel sintomo leggero e passeggero chiamato ialoproctite (bruciore anale). Per uso topico, cosparso in soluzione oleosa sulla parte dolorante, è un potente antidolorifico (infatti era presente nel rimpianto “Linimento Sloan”), perché interrompe la trasmissione del dolore attraverso le fibre nervose periferiche (ma in alcuni casi agisce perfino sui neuroni centrali, ha provato la rivista Pain), attutendo o facendo cessare dolori e pruriti post-erpetici che magari duravano da anni (“fuoco di S.Antonio” o herpes zoster).
      Ma in individui e diete a rischio può provocare nuovi e gravissimi dolori, quelli da tumori della bocca, della gola, dell’esofago ecc. Vale la pena abusarne? No, decisamente no. E talvolta non vale neanche la pena usarne. Ai primi problemi, ai primi sintomi anomali, meglio smettere del tutto, e ricorrere semmai ad altre spezie. Oltretutto il peperoncino ha sapore, ma non ha odore. Che per una spezia non è il massimo.
      RISCHI DA ECCESSI, PROSTATA E RENI. UROLOGI PREOCCUPATI. Il peperoncino, stando ai tanti studi pubblicati e alle inesorabili statistiche mediche, si comporta proprio come un "condimento del diavolo": fa insieme bene (piccole quantità e uso sporadico) e male (grandi quantità e uso quotidiano). Come si usa fare in Oriente e solo in poche zone d’Italia (Calabria, Abruzzo). Consumarlo spesso o in abbondanza, e senza accompagnarlo nel medesimo pasto da molti cibi protettivi (dal peperoncino!), come insalate crude abbondanti e frutta e perfino latte, fa solo male. Parlano gli studi epidemiologici in Asia e Sud del Mondo, ma anche i consigli degli urologi. Si sapeva già del maggior rischio di irritazione alle vie urinarie e di tumori alla bocca e alle alte vie digestive. Ora emerge anche il rischio prostata.
      ''Il peperoncino – spiega il prof. Vincenzo Mirone, presidente della SIU (Società Italiana di Urologia) – usato spesso come Viagra dei poveri, non deve essere consumato in eccesso, se si vogliono evitare guai e rischi di tumore alla prostata. Un uso sconsiderato infatti infiamma la ghiandola, stimolando il desiderio nell'uomo da una parte, ma facendo venire anche la prostatite, legata ai tumori, così come dimostrano gli ultimi studi scientifici'' (Giornata europea di informazione sulle malattie della prostata. Ansa, 12 settembre 2007). E il tumore della prostata è la principale causa di morte per tumore nella popolazione maschile, dopo quello al polmone. “Il peperoncino non va consumato più di due volte a settimana", raccomanda l'esperto. "Una notizia, questa – commenta con ironia il prof. Franco Cuccurullo, presidente del Consiglio Superiore di Sanità e rettore dell'Università di Chieti – che in molte Regioni del Meridione potrebbe condurre alla pubblica lapidazione chi le diffonde. Ma non bisogna avere paura di dire la verità quando di mezzo c'è la salute". Perciò occorre maggiore divulgazione: “Al sud – ha ricordato – si fa un uso smodato di peperoncino. Dobbiamo dire a tutti che non è senza conseguenze” (Agi, 12 settembre 2007).
      E il prof. Fabrizio Iacono, urologo dell’università «Federico II» di Napoli, conferma: «I cibi piccanti, contrariamente ai luoghi comuni sul loro valore afrodisiaco, sono da evitare perché creano infiammazione» (interv. M. Pappagallo, Corr. Sera. 20 agosto 2012). E soprattutto «Il peperoncino abbinato a un superalcolico potrebbe essere causa di défaillance imbarazzanti: o nulla o troppa velocità (eiaculatio praecox)». Insomma, la vox populi e tutti gli opuscoli e articoletti sul web e i dépliant del Capsor sbagliano. E meno male che Iacono, Mirone e Cuccurullo sono tutti uomini di scienza meridionali! Essendo intelligenti prendono le distanze dalle superstizioni tipiche del Sud.
      Triste parabola del piccante. Un tempo il pepe, altra spezia utile ma irritante, importato via Samarcanda da Giava e Malabar, era un costosissimo condimento da Re. Nei forzieri del Tesoro pubblico dell'antica Roma imperiale c'erano sacchi di pepe, come se fosse oro, per tacere degli Horrea piperataria. Per millenni i poveri hanno invidiato ai ricchi due sapori che non potevano facilmente avere: il dolce e il piccante. Ma il secondo è il più raro in Natura. Grazie a Cristoforo Colombo che lo importò dall'America, col peperoncino, che è economicissimo e cresce dappertutto, anche sul davanzale d’una finestra, finalmente anche i poveri potevano conoscere il sapore piccante. E si sentirono tutti Re.
      Ma nel piccante c'è il tranello. Già il sapore – ripetiamo – dovrebbe mettere sull’avviso. Il piccante, come l’amaro, in una visione evoluzionistica dei rapporti trofici tra animali e piante, è una sostanza repellente per gli animali, insomma ha la funzione di allarme. Nella lotta incessante tra piante e animali predatori, la Natura sembra “difendere” le piante con pesticidi antibiotici o antinutritivi o fitormonali o comunque tossici, che allontanano o puniscono la specie degli invasori. Ma che pensare d’un veleno di difesa che "tradisce" la specie vegetale che dovrebbe difendere facendosi "scoprire" per il suo sapore piccante? Gli etologi e gli entomologi ci diranno se insetti e bruchi siano in grado di percepire il piccante. E i predatori mammiferi? E l’Uomo, che a differenza degli animali, consumatori eventuali e casuali, ne è talvolta un grande consumatore? Quel che è certo, è che gli uccelli non sentono il piccante del peperoncino, e infatti hanno contribuito mangiandone le bacche a diffonderne i semi in varie parti del mondo.
      NON SEMPRE FA DIMAGRIRE, ANZI, PUO’ FAR INGRASSARE. Uno studio prospettico cinese ha osservato per circa 7 anni 487.375 persone dai 30 ai 79 anni che avevano riempito liberamente un questionario su dieta e salute. Si è visto che alla fine del periodo quelli che – secondo le risposte del questionario – consumavano abitualmente (3-6 giorni su 7) più cibi piccanti, tra i quali preponderante era il peperoncino, avevano un rischio di morte minore del 14% rispetto a quelli che lo facevano solo 1-2 giorni a settimana (Lv et al. 2015). Ma è una ricerca soltanto «osservativa», insufficiente, basata sulle affermazioni e la memoria dei soggetti stessi, che necessita di ulteriori studi e approfondimenti – come ammettono gli autori – per poter consigliare un cambio nello stile alimentare, e capire se il consumo di cibo piccante è in grado da solo di migliorare la salute e ridurre la mortalità, oppure se è solo il segno di altri fattori come dieta o stile di vita.
      Anche perché sulla medesima platea di volontari cinesi il gruppo di ricercatori ha scoperto che il consumo abituale di cibo piccante è collegato a maggiore adiposità della popolazione adulta, specialmente addominale nei maschi, cioè a valori più alti di body mass index (BMI), percentuale di grasso corporeo (BF%), giro-vita (WC) e rapporto tra giro-vita e altezza (WHtR). Insomma, sembra che in Cina il piccante aiuti il sovrappeso (Sun et al. 2014).
      Ma come, il peperoncino non faceva perdere peso? In effetti, in Occidente alcuni studi, però su un minor numero di soggetti, avevano al contrario collegato peperoncino e cibo piccante a un miglior controllo del sovrappeso, perché il peperoncino sembra mobilitare e ossidare i depositi di grasso bruno aumentando la termogenesi (Yoneshiro et al. 2012; Ludy e Mattes 2011, Waiting et al. 2012).
      Com’è possibile questo diverso effetto? Premesso che peperoncino e condimenti piccanti rendono più piacevoli pietanze altrimenti insipide e quindi aumentano l’appetito (Nilius et al 2013; Reinbach et al 2010; Ludy & Mattes 2011), e che gli Asiatici sono predisposti all’obesità addominale, probabilmente – interpretano Sun e colleghi – in Occidente il piccante è usato su cibi per lo più carnei, mentre in Oriente su amidacei (riso insipido), che se piccanti sono più appetibili e mangiati di più, e su pietanze grasse. Per di più si è portati a “spegnere” il piccante con dolci e bevande. Così la marginale tendenza alla perdita di peso favorita dal piccante (l’aumento della spesa energetica è stimato in appena 50 kcal/die) può essere neutralizzata. Inoltre, come nel caso del polimorfismo dell’enzima catechol-O-metil transferasi a proprosito degli effetti dimagranti del tè verde, è probabile che esistano sensibilità diverse agli effetti di perdita di peso dipendenti da variabilità genetica. Tutto questo può portare paradossalmente a sovrappeso e obesità anche col peperoncino. Nelle donne obese, invece, cioè nei valori più alti di BMI, il peperoncino e il piccante sono negativamente associati al giro-vita, forse perché le donne consumano notoriamente più frutta e verdura e meno cibi grassi. Fatto sta che in Corea, in adulti sovrappeso una tradizionale pasta di soia al peperoncino ha ridotto il grasso viscerale e migliorato i profili lipidici, non si sa se per la soia o il piccante (Cha et al 2013).
      IL CASO DEL VECCHIETTO DI 80 ANNI, ovvero l’uso "topico", cioè locale del peperoncino. Dopo la pubblicazione del mio "Manuale di Terapie con gli Alimenti" della Mondadori, distrutto dallo stress e ancora timoroso su come un librone di 760 pagine, con 3200 riferimenti scientifici (una cosa che neanche esisteva nelle università Usa, figuriamoci in quelle italiane), sarebbe stato accolto dal largo pubblico italiano, mi rinfrancai solo grazie ad una commovente lettera d'un anziano di 80 anni che mi ringraziava come se io fossi stato un taumaturgo. Il poveretto soffriva da 10 anni di herpes zoster ("fuoco di S.Antonio") con dolori lancinanti e-o prurito. Sul mio libro aveva letto, alla voce "Dolore" lo studio con cui i ricercatori avevano provato che la capsaicina – il principio attivo pungente del peperoncino – attraverso l’inibizione della sostanza P delle terminazioni nervose locali riesce, in un complesso meccanismo d'azione, a interrompere la trasmissione del dolore. [Il che spiega anche l’assuefazione al peperoncino dei grandi amanti del piccante: la distruzione dei neuroni nelle papille gustative e nel cavo orale provocata dall’eccesso di peperoncino piccante – che è “visto” dall’organismo come un tossico – fa perdere sensibilità ai recettori vanilloidi VR1]. In sostanza, il vecchio si era preparato da sé o aveva commissionato in farmacia, seguendo le indicazioni del mio libro, un "olio al peperoncino" non molto diverso da quello per uso alimentare, lo aveva spalmato sulla parte dolorante, massaggiando bene. E, riferiva che per la prima volta in 10 anni il dolore e il prurito erano del tutto scomparsi.
      L'uso alimentare è ben noto. Porta vantaggi, come una capacità mucocinetica, ovvero tale da umidificare l'albero respiratorio ed espellere il muco. Alle volte, quando si è un po' raffreddati e intasati, un brodo piccante con peperoncino ci fa bene. Ed ha anche una potente azione antiossidante, limitata solo dal fatto che essendo una droga piccante la si può consumare solo a grammi, non a etti (“particolare” a cui non pensano mai i suoi propagandisti). Ho letto studi che lo considerano addirittura anticancro, ma evidentemente non verso gli organi che irrita. Ha anche un curioso effetto paradosso: secondo alcuni, stimolando a reagire la mucosa gastrica (“reazione adattativa”), come dire, ipotonica, in alcuni casi potrebbe aumentare perfino le difese anti-ulcera. Ho proprio letto così in un lontano studio, e perciò ho inserito questa proprietà difensiva nella voce "Peperoncino" dell’enciclopedico manuale Alimentazione Naturale. Peccato, però, che alcuni studi più recenti su giovani volontari sani consumatori della tipica "pizza di New York" tanto di moda tra i latinos (è ricca di peperoncino piccante messicano del tipo "jalapeno"), abbiano evidenziato preoccupanti microlesioni a livello dello stomaco. Insomma, gli effetti del peperoncino (vantaggi e danni) non sono ancora chiari e univoci, e gli studi sono contrastanti, perché gli studi sono complicati da numerosi altri fattori.
IL PICCANTE ANCHE ALTROVE. Contadini e pastori antichi andavano cercando erbe vagamente agre-piccanti come succedanei del costoso pepe, per esempio il pepe d’acqua (Persicaria hydropiper). Oggi, invece, le erbe selvatiche sono dimenticate e si cerca il piccante nei funghi. I funghi piccanti sono stupidamente ricercatissimi, e a caro prezzo, proprio nelle stesse province in cui si eccede in peperoncino. Sono tutti velenosi, poco, molto o moltissimo (alcuni potenzialmente mortali: dipende dalla quantità e ripetizione del pasto, perché la tossina si accumula), da Lactarius acerrimus, il fungo “asquant” del Barese, a L. piperatus, che in Calabria è addirittura essiccato e polverizzato come se fosse peperoncino, fino alle russole piccanti, come R. emetica o peperino. Una tossicità inutile, questa, da non confondere con la tossicità relativa, cioè “utile”, di molte verdure dai composti leggermente o molto piccanti, come gli indolo-glucosinolati delle Brassicacee (rucola, ravanello, rafano, broccoli, crescione, rapa, broccoletti di rapa, ecc.), che proprio grazie alla loro tossicità spingono addirittura all’apoptosi o suicidio programmato le cellule cancerose. La Natura ha tanti, apparenti contrasti: in questo caso “chiodo scaccia chiodo”.
      Fatto sta, e tutti i medici urologi lo sanno, che molti, anche in Italia, dopo aver ripetutamente consumato cibi ricchi di peperoncino manifestano bruciore e perfino difficoltà alla minzione, o minzioni ripetute (stranguria, come l’eccesso di crescione, in cui però prevale l’effetto anticancro dei tiocianati), o la già detta ialoproctite, caratteristico bruciore anale alla defecazione.
      Ma il maggior rischio di cancro da spezie piccanti degli Orientali va interpretato con intelligenza: dipende cioè per gran parte dalla dieta complessiva. Quei popoli per ragioni igieniche consumano di rado verdure crude (protettive delle alte vie digestive) e poco o niente latte (tranne che in India), anch’esso protettivo. E per di più hanno una dieta complessiva ad alto rischio, perché insieme col piccante ingeriscono ogni giorno per tutta la vita anche una quantità di salsa di soia, cibi affumicati o sotto sale (presenza del radicale N-nitroso, quindi nitrosamine, e poi muffe, aflatossine e altre sostanze cancerogene). Il piccante in eccesso, in quel contesto a rischio, è la ciliegina sulla torta.
      Da noi, in Europa e specialmente in Italia, dove il piccante è meno frequente per l’idiosincrasia di casalinghe, bambini e cuochi verso le spezie troppo forti, e comunque il peperoncino viene tamponato dalla tipica abbondanza di verdure, frutti crudi, latte e latticini, il rischio è di gran lunga minore. Tanto che in molti casi, in diete molto protettive, potrebbero prevalere i vantaggi del dannatissimo "pepe rosso" o "della Cayenna", imitazione popolare del pepe dei Re. Ma non in regioni dove il peperoncino è talmente diffuso nella cultura antropologica da essere diventato ormai più una fissazione quotidiana, una superstizione, che un condimento, anzi, una sorta di emblema abusivo del mangiar bene e della buona salute.
CONSIGLI PRATICI. In ogni caso, prudenza e molta moderazione con questi piccanti e alle volte utili "veleni naturali". Non fatevi convincere da certi opuscoli di esaltati, come capitò a me da giovanissimo, quando spargevo peperoncino su tutte le pietanze, a pranzo e a cena. Non imitate i montanari calabresi della leggenda che mangiavano il peperoncino piccantissimo (“diavolicchiu”) a morsi, accompagnandolo solo con poco pane e molto vino, e fumandoci pure sopra. E comunque non mangiatelo mai, assolutamente, a stomaco vuoto, tanto meno se di tipo molto piccante, come hanno dovuto fare per esperimento gli orchestrali d’una orchestra sinfonica danese prima di eseguire un brano, un pazzo esperimento proposto da un musicista amante del peperoncino (basta vedere il divertente filmato e leggere le didascalie per capire che smorfie, bruciore alla bocca e allo stomaco, malesseri, addirittura svenimenti, non possono essere collegati a un cibo sano).
      Consumatelo di rado, meglio in polvere, cioè essiccato e macinato. In tale forma può essere ben amalgamato ai cibi, e più rapidamente neutralizzato dal sistema digerente e dal fegato, rispetto a quello in pezzi che è più offensivo proprio per la sua consistenza fisica e la più lunga permanenza nel tubo digerente.
      Comunque il peperoncino non deve mai trovarsi a diretto contatto con le mucose (lo stesso per l’aglio). Va consumato sempre in piccole quantità e durante pasti abbondanti, ricchi non solo di amidacei e grassi, ma anche di verdura e frutta fresca, per esempio arance, oppure insieme a yogurt e latte grasso (i latticini leggeri proteggono le mucose e veicolano bene le spezie piccanti).
      E in caso d’infiammazione o ipertrofia crescente della prostata, non più di una o due volte a settimana, come consigliano i medici della SIU. E ai primi sintomi (bruciore, stranguria ecc.) smettete.
UNA REVISIONE CRITICA DEGLI STUDI PRECEDENTI. Ecco una pagina della dettagliata review, basata soltanto sul riesame, più severo, dell'evidenza scientifica sui rischi mostrata dai 14 studi più attendibili finora pubblicati, sul rapporto tra peperoncino e cancro, pubblicata nel 2007 da World Cancer Research Fund e American Institute for Cancer Research: “14 studi caso-controllo hanno investigato il rapporto tra peperoncino e cancro allo stomaco. 9 studi hanno mostrato un aumentato rischio per i più alti consumi, comparati ai più bassi, rischio statisticamente significativo in 4 casi. In un 5.o studio il maggior rischio era significativo nei maschi ma non nelle donne, mentre in un 6.o studio era significativo solo nei non-bevitori di alcol ma non nei bevitori. Un diminuito rischio [da peperoncino] era mostrato da altri 4 studi, ma statisticamente significativo solo in 3. Alcuni costituenti del peperoncino sono irritanti, il che potrebbe plausibilmente aumentare l’infiammazione nello stomaco. In sintesi [sul forte consumo di peperoncino] “esiste una evidenza che suggerisce una sua associazione con un aumentato rischio di cancro allo stomaco”.
      In altre parole, i severi criteri scientifici usati dai due organismi nel valutare gli studi finora pubblicati fanno sì che il maggior rischio statisticamente significativo ci sia, anche se non è alto. Il che non vuol dire "basso rischio", sia chiaro, ma solo che finora non si è ancora riusciti ad avere le prove di un rischio alto. Il che è comprensibile, vista la difficoltà estrema di separare il consumo di un cibo – tanto più di una spezia che si misura in grammi o decigrammi e viene messa dappertutto – dalla dieta generale di un individuo o di una popolazione. Fatto sta che questa semplice prova di rischio deve mettere in moderato allarme, spingendoci ad evitare non l’uso sensato del peperoncino (cioè poco o pochissimo e ogni tanto), ma ogni eccesso (cioè tanto e spesso).
LA COMPLESSA EPIDEMIOLOGIA DELL’ESTREMO ORIENTE. Gli studi epidemiologici, cioè medico-statistici, sull’uso del piccante in Estremo Oriente sono complessi, per il ruolo di confusione che possono ingenerare numerosi fattori. E’ ormai super-provato – ripetiamo – che hanno maggiori rischi di tumori al naso, alla bocca, alla laringe e all'esofago Indiani, Cinesi e altri popoli forti e abituali consumatori di peperoncino, pepe e altre droghe molto piccanti. E tra i vari cibi piccanti, come pepe e peperoncino, sono del tutto analoghi pregi, difetti e meccanismi d'azione, al contrario di quanto crede la gente: perciò, non è vero che “il pepe fa male, ma il peperoncino fa bene”. Ma questi studi sono complicati da possibili altri usi alimentari e modi di conservazione che possono confondere i dati, come i cibi conservati sotto sale (pesce, soprattutto, ma anche verdure) e le salse fermentate di soia, oltre all’usanza orientale di consumare bevande e cibi bollenti. Tutti eccessi o errori oltretutto non accompagnati da una dieta generale adeguata, cioè ricca di verdure crude e dotata anche di latticini, entrambi gruppi di alimenti protettivi dal piccante, come invece accade in Occidente.
COTTURA. Infine, c’è ambiguità e incertezza anche sul problema della cottura. Può essere cotto il peperoncino? No, assolutamente, dicono i gastronomi, ma anche i biochimici: il calore distrugge parte dei suoi principi attivi (ma non i capsaicinoidi, come abbiamo visto sopra), con la conseguenza che si degradano le molecole che formano il suo sapore. In India, dove si abbonda in piccante e in cotture, e il peperoncino viene mescolato spesso ad altre spezie (p.es. è nel curry), può capitare che sia cotto, o più spesso (e più correttamente) aggiunto in fine cottura. La differenza è una questione di tempi e di sapore finale che si vuole ottenere. Si può tollerare che sia aggiunto a pezzetti in fine cottura al riso e coinvolto in un minuto di cottura, ma non quando è in polvere: va aggiunto a fuoco spento o direttamente sui piatti, a seconda dei gusti di ognuno. Esiste perfino una balzana diceria per cui diventerebbe addirittura “tossico” con la cottura, Ovviamente non è vero. Infine, una curiosa citazione da una intervista, molto tagliata, su Repubblica:
La Repubblica: ORA PARLA LA SCIENZA
IL PEPERONCINO E’ OTTIMO CONTRO DOLORI E PRURITI
Rosso e piccante, ampiamente utilizzato in tutta la cucina mediterranea, il peperoncino viene scoperto dalla medicina moderna per la sua capacità di alleviare dolore e pruriti. Questo potere è già noto da qualche tempo, ma ora la spezia si è meritata persino una pubblicazione su una rivista universitaria degli Usa, la Penn State Sports Medicine Newsletter, organo ufficiale del Centro di medicina dello sport dell'Università di Langhome (Pennsylvania): “Alcuni atleti e ballerini usano abitualmente creme locali a base di capsaicina, il principio attivo contenuto nel peperoncino, per ridurre il dolore da osteo-artriti, ma gli studi che verificano questo particolare trattamento non erano stati finora pubblicati”, scrivono gli autori della ricerca. Osservazioni, condotte più di recente alla Yale University e al National Cancer Institute, avevano dimostrato l'efficacia anti-dolorifica della capsaicina, sostanza scoperta nel pepe rosso. Non ne sono ben noti i meccanismi di azione, ma si pensa che la capsaicina stimoli il rilascio di una sostanza che funge da mediatore del dolore e del prurito, detta sostanza P, in maniera più abbondante del normale. Sotto stimolazione della capsaicina, la sostanza P viene liberata dalle terminazioni nervose sensitive sia a livello centrale che periferico (terminazioni sensitive cutanee) e poi produce una prolungata desensibilizzazione delle stesse terminazioni, spiega Nico Valerio, esperto della nutrizione e della salute. Insomma, l’effetto antalgico del principio attivo del peperoncino dipende dalla sua capacità di provocare l'esaurimento dei neuro-peptidi e il blocco della fibra capsaicina-sensibile che trasporta informazioni anomale al sistema nervoso centrale, come accade probabilmente nel dolore (La Repubblica, 20 febbraio 1997).
RIFERIMENTI
Innanzitutto si raccomanda per la sua sintesi e il criterio razionale lo studio review di BODE AM e DONG Z. The Two Faces of Capsaicin, Cancer Research 71 (8), April 15, 2011, 71; 2809-2814, con 50 riferimenti e i principali studi scientifici favorevoli e contrari al peperoncino e alla capsaicina. 
Poi segnalo lo studio della Supalkova et al. ampiamente citato nell’articolo (e da cui ho tratto una tabella e un disegno), e lo studio di Huffman et al. sul jalapeno
Supalkova V, Stavelikova H, Krizkova S, Adam V, Horna A, Havel L, Ryant P, Babula P, Kizek R. Study of Capsaicin Content in Various Parts of Pepper Fruit by Liquid Chromatography with Electrochemical Detection. Acta Chim. Slov. 2007, 54, 55–59 55
Huffman VL, Schadle ER, Villalon B, Burns EE. Volatile components and pungency in fresh and processed jalapeno peppers. Journal of Food Science 43, 6, 1809–1811, November 1978.
La review di Lampe sulla più importante rivista scientifica di nutrizione clinica, studia gli effetti anti-cancro delle spezie in generale, ma alla fine prevede un capoverso di eccezioni o di dubbi proprio sul peperoncino, citando tre studi che riportiamo qui:
Lampe JW. Spicing up a vegetarian diet: chemopreventive effects of phytochemicals. Am J Clin Nutr 2003;78(suppl):579S-583S. 
Mathew A, Gangadharan P, Varghese C, Nair MK. Diet and stomach cancer: a case-control study in South India. Eur J Cancer Prev 2000;9:89-97.
Phukan RK, Chetia CK, Ali MS, Mahanta J. Role of dietary habits in the development of esophageal cancer in Assam, the north-eastern region of India. Nutr Cancer 2001;39:204-9.
Jensen-Jarolim E, Gajdzik L, Haberl I, Kraft D, Scheiner O, Graf J. Hot spices influence permeability of human intestinal epithelial monolayers.
J Nutr 1998;128:577-81.

Uno studio clinico italiano smentisce la convinzione popolare che il peperoncino provochi o peggiori i sintomi di emorroidi. Quindi non c’è motivo che il medico si opponga se il paziente desidera questa spezia di tanto in tanto.
Infine, altri studi, come esempi di attività protettiva o a rischio, secondo il suo comportamento duplice tipico delle spezie e soprattutto quelle piccanti: antiossidante e perfino anti-cancro (per lo più in laboratorio e come capsaicina estratta, va anche detto, il che limita molto i presunti vantaggi, che per me restano solo la mucolisi e la minore utilizzazione energetica...) e irritante, come "cibo vero" mangiato a lungo e, specie in Oriente, in quantità. In questo caso, insieme ad altri fattori alimentari, aumenta il rischio epidemiologico di tumori a bocca, esofago e stomaco:
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Capsaicina nel peperoncino: carcinogeno, co-carcinogeno o anti-cancro? [Capsaicin in hot chili pepper: carcinogen, co-carcinogen or anticarcinogen?], Surh YJ, Lee SS. Food Chem Toxicol 1996;34:313-6.
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IMMAGINI
1. TABELLA. Il grado di piccantezza delle diverse soluzioni di capsaicina – che è il principio attivo piccante dei frutti di alcune specie del genere Capsicum – fu misurato in modo soggettivo dallo Scoville, ma oggi è suffragato dalle quantità reali di capsaicina determinate con la gascromatografia. I gradi Scoville hanno quindi una notevole utilità per differenziare tra loro le centinaia di varietà di peperoncino e per decidere quali impiegare per uso alimentare o farmacologico. Come si vede dalla tabella, qui riprodotta in forma sintetica, anche varietà considerate molto piccanti, sono una minima cosa rispetto ad altre ultra-piccanti e, naturalmente, ultra-tossiche, di cui si sconsiglia l’uso. 
2. IMMAGINE. Lo spaccato di un peperone piccante con le sue parti più o meno dotate di capsaicina (da Supalkova et al. modif.). 
3. TABELLA. La concentrazione di capsaicina nelle diverse parti di peperoncini di alcune varietà in Europa (da Supalkova et al).

AGGIORNATO IL 14 AGOSTO 2021

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