sabato 26 aprile 2008

PIRAMIDE, ma non Torre di Babele. Ecco quella dell’Alimentazione Naturale.

Piramide giornaliera Alimentazione Naturale (NV 2008) 
Una "Piramide alimentare" non è la "tavola di Mosè", ma è solo un grafico mnemonico indicativo, un quadro sinottico, un sintetico manifesto di educazione didattica popolare, insomma, un modo visivo semplice, elementare e approssimativo che serve a dare solo un'idea, un colpo d'occhio - facile da capire e memorizzare per i non esperti, ma utile anche agli esperti - della gerarchia degli alimenti quotidiani più importanti, e anche, più o meno, di quante porzioni di ogni gruppo alimentare un adulto tipo deve consumare ogni giorno.
      In media approssimata, ovviamente (a seconda del sesso, delle età, del peso ecc), e sempre usando il buonsenso. Per esempio, 1-2 pz di legumi, pesce e uova significa che consumeremo ogni giorno 1 pz di legumi (meglio a pranzo) più eventualmente 1 di uova (cena o colazione), oppure 1 pz di legumi e 1 pz di pesce. E così via. Come si vede più avanti ("Che cosa s'intende per porzione"), il pane di contorno vale 1 pz, ma è molto meno di 1 pz di cereali da primo piatto. Ecco come si arriva alle 4-5 porzioni.
Si noterà che il numero delle porzioni, e perciò l’importanza degli alimenti, cresce a mano a mano che dal vertice si scende alla base della piramide, e infatti le aree raffigurate sono sempre più grandi. Gli alimenti al vertice, che coprono un'area minima, perciò è bene consumarli raramente. Ma se ne potrebbe anche fare a meno.
      Il posto principale spetta alle verdure e alla frutta (7 porzioni consigliate, di cui 4 di prtaggi e verdure, e 3 di frutta), che infatti coprono l'area più grande. Come mai? Perché sia in peso a crudo, sia in numero di porzioni giornaliere, sia soprattutto per evidenza degli studi sull'efficacia preventiva e terapeutica, questi due gruppi di alimenti battono tutti gli altri.
      Di piramidi ce ne sono molte, in vari aggiornamenti periodici, divise per nazioni, aree geografiche o continenti, da quella famosa del Ministero dell’Agricoltura degli Stati Uniti a quelle più scientifiche create da istituti d’Università o gruppi di studiosi indipendenti, a quelle pensate per categorie particolari. Insomma, il rischio delle troppe piramidi alimentari è la confusione, una torre di Babele. Oggi un divulgatore che in una conferenza volesse mostrare l’abc, cioè le porzioni degli alimenti da consumare ogni giorno non saprebbe a quale grafico semplice ricorrere: tutti sono pieni di errori, imprecisioni, vecchie idee smentite dalla scienza e dal buonsenso.
      Eppure non ho trovato una sola piramide che simboleggi in modo semplice e graficamente efficace, e senza errori gravi (questi "errori", chiamiamoli così, sono in realtà concessioni alla propria ideologia, agli interessi di qualche industria, o alla politica agricola di un Governo), la graduatoria dei gruppi di alimenti per un vero naturista salutista, che segua cioè una vera alimentazione naturale mettendo d’accordo la Tradizione con la Scienza sperimentale moderna. Perciò sono stato costretto a crearla appositamente (v. illustrazione).
      E’ una prima bozza di Piramide Giornaliera dell'Alimentazione Naturale e sana che tiene conto finalmente delle acquisizioni scientifiche e potrà avere successivi miglioramenti, ma che fin d’ora può costituire una base comune per i naturisti (e, scegliendo all’interno di ogni gruppo di alimenti, anche per i naturisti vegetariani e vegan), che cercano le conferme della tradizione scientifica del Naturismo ippocratico nelle ultime acquisizioni della ricerca (Health Food, Natural Food, nei Paesi anglosassoni), per i salutisti in genere che vogliono l’aggiornamento alle direttive nutrizionali. Così, i vegetariani e i vegan si limiteranno ad eliminare l’alimento che non li interessa: i vegetariani elimineranno il pesce, oltre alla carne; i vegan toglieranno anche uova e latticini.
      Si noterà la mancanza della carne, che non è del tutto vietata in teoria nell’Alimentazione Naturale, ma è considerata rara ed eventuale (come dimostra la Tradizione storica popolare). Anche perché non cura né previene alcunché, ma anzi è ad alto rischio. L'avrei dovuta mettere all'apice, tra i cibi che si devono consumare "il meno possibile": tanto valeva toglierla. E poiché questo sfavore è confermato dalla Scienza recente, che dopo aver fatto l’improbabile distinzione tra "carni bianche" e "carni rosse", poi alle "carni di terra" preferisce le "carni di mare", cioè il pesce, come protettivo per i suoi speciali acidi grassi, ho creduto opportuno indicare solo questo, ovviamente per i naturisti non vegetariani.
      I cereali sono soltanto integrali. Lo pretendono tutti gli studi scientifici, in questo d’accordo con la Tradizione. Eppure i nutrizionisti italiani (e per la verità anche stranieri) fanno orecchie da mercante. Perché? Guai a scombussolare i piani di produzione agricola e di trasformazione, e il mercato dei cereali. Le grandi industrie multinazionali temono un calo degli acquisti.
      D’altra parte, i cereali raffinati (pane, pasta, riso, polenta, biscotti, crackers, croissant, tramezzini, grissini ecc., consumati in Italia e in tutto il mondo) sono previsti come cibo eventuale o raro nelle altre Piramidi "della salute", come quella di Willett.
      Non potevo, perciò, essere più accomodante, visto che l’antica e fondamentale norma naturista dei cereali completi è oggi approvata e fatta propria dalla ricerca sperimentale, e come tendenza è accettata a denti stretti anche dai nutrizionisti. Tutte le piramidi – ma ipocritamente solo nei testi di spiegazioni a margine – ne fanno cenno.
      L’unica piramide, però, che fa la scelta decisa e coraggiosa di inserire i cereali integrali nella prima fascia è, appunto, quella di Willett (Università di Harvard), che per coerenza confina i cereali raffinati (pasta bianca, prodotti di farina bianca, pane bianco, riso raffinato: il 99,9% dei cereali consumati dagli Italiani) nell’ultima fascia, cioè tra i cibi da consumare di rado o il meno possibile, come le carni rosse! Peccato che poi la piramide di Willett cada nell’errore di inserire verdure e frutta in seconda posizione, dietro ai cereali, e spinga la rivalutazione degli oli fino all’assurdo di metterli in primo piano, nonostante che si consumino a decine di grammi.
      Le squisite ma troppo diffuse patate, le più utili patate dolci o americane e le castagne non hanno trovato posto nella Piramide per motivi di spazio. Ma hanno meno fibre e sono meno protettive degli stessi cereali raffinati. L'amido delle patate ha un indice glicemico molto alto (anche 110), addirittura più della pasta raffinata o del pane bianco, perché per la forma delle sue particelle ha la proprietà di trasformarsi immediatamente e totalmente in glucosio. Alta risposta insulinica e nessuna protezione epidemiologica da malattie cardio-vascolari e tumori al colon-retto.
      Castagne e patate costituiranno una piacevole variazione di tanto in tanto, specialmente se cotte e condite in modo sano. Per esempio, basta con le fritture: proviamo le patate al forno, tagliate a tocchetti grossi, con tutta la buccia (che ha interessanti antiossidanti) e cosparse di rosmarino, sale e olio crudo: deliziose.
      I legumi, invece, sono messi in evidenza come uno dei gruppi di alimenti più preventivi e protettivi esistenti, e perciò consigliati anche 1 volta al giorno, al posto o accanto ad altri cibi proteici. Anche dietologicamente sono utili, perché possono sostituire i cereali, troppo abbondanri in Italia, contribuendo a far dimagrire per le note proprietà antinutritive, anti-colesterolo e anti-diabete.
      Gli oli vegetali, secondo le attuali tendenze, non devono essere risparmiati a favore dei cereali, ma aumentati perché molto protettivi. Devono essere presenti in ogni pasto per condire verdure, cereali e legumi, sostituiti o affiancati dai semi oleosi (noci, mandorle, nocciole, pinoli, sesamo ecc).
      Verdure e frutta sono appena più abbondanti della piramidi non naturiste, secondo gli studi che hanno provato vantaggi maggiori sopra le 6 porzioni. La cosa non è difficile usando la tecnica del raddoppio delle quantità nel piatto: è chiaro che una insalata mista abbondante (200-250 g) vale per 2 porzioni. E poi c'è l'enorme varietà di minestreminestroni e zuppe, ma anche sotto forma di torte rustiche ripiene di verdure e come contorni. Insomma, non è impossibile arrivare - senza fare stranezze - alle 10 porzioni al giorno, tra verdure e frutta.
      Latte e latticini (latte, yogurt, ricotta, formaggi molli e duri) sono consigliati dalla Piramide Alimentare Italiana (quella ufficiale) in poco più di 2 pz (cioè 2-3). Esattamente 2 pz al giorno tra latte e yogurt, più 4 pz a settimana di formaggi, tra molli e duri. Qui, invece, nella Piramide dell'Alimentazione Naturale ho preferito ridurli un poco (1-2 pz al giorno), perché altrimenti molti - specialmente i nei-vegetariani - si sentirebbero autorizzati a consumare grandi quantità di formaggi, cibo molto ricco di grassi saturi, il cui eccesso sembra collegato statisticamente a malattie cardio-vascolari e tumorali. Si consigliano quindi soprattutto latte e yogurt (1-2 pz al giorno). ma di queste una porzione può essere sostituita da formaggio 3-4 volte la settimana. Chi invece sceglierà di consumare solo 1 pz al giorno di latticini, potrà farlo anche usando sempre formaggi (100g i molli e la ricotta, 50g i duri).
      Vino e dolci naturali, per Tradizione cibi complementari ed eccezionali, sono stati giustamente messi tra parentesi perché dotati di antiossidanti ma dannosi in eccesso: volendo se ne può benissimo fare a meno.

      Bere molta acqua, infine, anche se non necessariamente 2 litri esatti. E' insensato, infatti, mettere sullo stesso piano chi mangia solo panini al bar e tutto il giorno sgranocchia biscotti o patatine, e chi invece ha un'intera dieta molto idratata, a base cioè di insalate, verdure, ortaggi, zuppe, latte, yogurt, uova e frutta fresca (a cui aggiunge anche dei tè), tutti cibi ad altissimo contenuto di acqua, e consuma cereali ben idratati (cereali bolliti, fiocchi ammollati in acqua, brodo o latte, pastasciutta ecc). Dicevano i vecchi naturisti che seguivano Ippocrate, padre della tradizione della medicina scientifica: "Bere il cibo, masticare l'acqua". Fa male sia poca acqua, sia troppa.
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CHE COSA S'INTENDE PER "PORZIONE". Esistono differenze tra i vari autori, e oggi, vista la riluttanza generale a consumare verdure e frutta, molti nutrizionisti hanno calato le brache. La "scienza" della nutrizione è come la politica: non vuole essere impopolare. Così, ho dovuto leggere, addirittura, sulla grande stampa (Favaro sul Corriere della Sera) che una porzione di insalata cruda sarebbe di soli 50 g. Certo, meglio di niente. Ma con questa logica non si va lontano. Seguiamo, invece, le quantità utili a prevenire, secondo i veri esperti: gli oncologi. In questo senso la lista più accreditata (Sculati e altri nutrizionisti collegati ai progetti di prevenzione oncologica) potrebbe essere la seguente, in grammi o millilitri calcolati prima dell'eventuale cottura:
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      Cereali integrali, fiocchi, polente, bulgur, semole, cus-cus, pasta e riso integrali, 80 g, Pane integrale 50 g, Pizza o torta rustica integrale 120-150 g, Patate, patate dolci e castagne (con la precisazione di cui sopra) 200 g, Ortaggi da cuocere 250 g, Insalata cruda 100 g, Frutta fresca 150 g, Legumi secchi 30 g, Legumi freschi 100 g, Uova 1, Pesce 150 g, Latte 125ml, Yogurt 125 ml, Formaggio fresco 100 g, Ricotta 100 g, Formaggio stagionato 50 g, Olio 10 ml, Frutta succosa essiccata 10 g, Noci e semi oleosi 15 g, Miele 10 g, Zucchero scuro 5 g, Vino 100 ml, Birra 330 ml..

ATTIVITA' FISICA, PRIMO CIBO NATURALE. L'alimentazione, da sola, anche la più naturista possibile, non basta alla buona salute. Serve il movimento. La macchina Uomo è stata selezionata nei milioni di anni per muoversi, camminare, correre, nuotare, spostare rami, sollevare pietre, insomma lavorare. Oggi che il lavoro fisico non fa più parte (quasi) del lavoro professionale, dobbiamo inventarci dei lavori sostitutivi per vivere. Intanto cerchiamo di star seduti solo in casi di assoluta necessità, e mai quando non abbiamo niente da fare o per convenienze sociali. Ma per sedentarismo oggi si intende qualcosa di più: il non far movimento.
      Il sedentarismo è una malattia, anche quando non provoca obesità. E tra i suoi mali minori c'è anche quello di falsare la dieta, perché siamo costretti a mangiare pochissimo per non ingrassare, con rischi di squilibri nutritivi e carenze. Perciò, non solo per star bene e abbassare tutti i rischi, ma perfino per poter mangiare di più e meglio dobbiamo ogni giorno fare esercizio fisico o sport. E' dall'Antichità che i Naturisti ne hanno fatto un cardine della vita sana. Solo ora la scienza ci dà ragione. Ma tutti la ignorano, specialmente i pigri Italiani, tanto più nel Centro-sud.
      Eliminate le ironie iniziali, i famosi 10 mila passi al giorno (solo all'inizio, per curiosità, contati col contapassi, ma poi le distanze si imparano) servono almeno a passare dal girone infernale dei sedentari al paradiso degli eletti non sedentari. E' incredibile quanti passi e passetti si facciano senza accorgersene quando non si sta seduti e si fa vita attiva: anche 2000 o 3000 al giorno.
      Ma sono i restanti 7000-8000 passi che fanno la differenza, e questi devono essere fatti appositamente, applicando la volontà, cambiando abitudini, camminando di buon passo anziché usare l'auto o il bus: basta un'ora al giorno. Così si pratica un'attività fisica vera e propria, molto benefica, che può anche diventare uno sport aerobico leggero o medio. In città, l'ideale è la camminata spedita (parchi, lungomare, lungofiume, strade poco frequentate), ogni giorno da 45 a 60 minuti. Le alternative possono essere la bicicletta o la cyclette (30 minuti o più), il jogging lento o il nuoto. In più, nella natura selvaggia e specialmente tra boschi e montagne o lungo coste marine rocciose, l'ideale è l'escursionismo sportivo (1 giorno a settimana, minimo 3 ore) praticato con la giusta andatura e senza che ne derivi un'eccessiva fatica, produttrice di radicali liberi.


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AGGIORNATO IL 12 OTTOBRE 2016

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venerdì 25 aprile 2008

PEPERONCINO. C’è perfino chi lo cuoce. Ma “è vero che cotto è tossico?"


Innanzitutto, prima di andare avanti, si deve leggere l’articolo monografico, completo di riferimenti, con i pro e i contra scientifici sul peperoncino e soprattutto sui rischi del piccante.
Oggi si aggiunge il peperoncino piccante dappertutto, perfino nella cioccolata. Anzi, nel cioccolato ci sta benissimo un po’ di piccante – com’era in origine tra gli Atzechi (peccato, però, che non fosse dolce…) – ma allora ci sta meglio lo zenzero. Fatto sta che ci sono ristoranti, ricettari, menù, basati interamente sul peperoncino. Mi chiedo come facessero gli Antichi, prima del Cinquecento, senza peperoncino, e quindi senza quasi il sapore piccante (sono rare le erbe nostrane con un gusto pungente, p.es. il pepe d'acqua e il rafano). Nella Roma imperiale, certo, c'era il pepe, importato dall'India a dorso di cammello, via Samarcanda. Ma era costosissimo, più o meno come l'oro, tanto che gli era riservato un caveau del Tesoro pubblico ("piperarium").

MANIA COLLETTIVA - Fatto sta che, nonostante che non abbia aroma e non possa certo eguagliare il pepe, il peperoncino piace a molti, soprattutto a noi maschi, tanto più se adulti. Si ritiene, a torto, che "il pepe fa male, ma il peperoncino fa bene". Mentre i problemi posti dall'eccesso di cibo piccante sono gli stessi nei due casi. Anzi il secondo sembra porre più problemi perché più pungente. Fatto sta che in India, Tailandia, Messico, perfino in Calabria e Abruzzo, è una vera mania generalizzata quella del peperoncino. Il "Padre Pio" dei condimenti. Ma quali sono le finte "stimmate".

ANTROPOLOGIA E PSICOLOGIA - Sembra quasi che una cultura antropologica fondata su leggende e luoghi comuni infondati si sia sovrapposta all'istintiva reazione al gusto. Pare che noi maschi adulti non sappiamo più interpretare il significato del dolore bruciante causato dalle spezie piccanti come lo interpretano istintivamente gli animali, i bambini piccoli e le donne giovani (le anziane, invece, almeno in questo sono influenzate dalla cultura maschile), cioè come un allarme, il segnale d'una sorta di pericolo farmacologico.
E' evidente che la fortuna del peperoncino si giova d'un doppio fattore, piuttosto contorto. Il residuo d'un antico status symbol economico e sociale collegato al pepe (insomma, è "il pepe di tutti", "il pepe democratico", "il pepe dei poveri"). E in più la valenza di droga toccasana, potente proprio in virtù del suo sapore forte, ma "più sana e naturale" del pepe, che forse perché aristocratico viene oggi creduto tossico senza che nessuna "Accademia" o "Confraternita" di gastronomi lo difenda, a differenza del peperoncino. Scherzi della credulità popolare.

VANTAGGI E RISCHI EPIDEMIOLOGICI – Innanzitutto, come si legge nella monografia riportata sopra (vedi link), è infondata la credenza popolare di una sua superiorità farmacologica, salutistica e gastronomica rispetto al pepe, che anzi è meno piccante e molto più ricco di sottosapori e aromi, perfino quando è conservato. Il peperoncino può essere utile come mucocinetico respiratorio (p.es., un buon brodo piccante in caso di raffreddore o sinusite), analgesico sintomatico per uso locale (herpes zoster, artriti ecc.) in quanto interrompe la trasmissione del dolore agendo sulla sostanza P, e in alcuni casi è collegato ad un minor rischio in varie malattie, cancro compreso. Ma è ben noto che ciò che cura può essere anche tossico. Così, per i tossicologi è normale che i ratti muoiano con appena 23,6 millilitri (per kg di peso) di banale salsa Tabasco di pomodoro al peperoncino, che forse calabresi e orientali giudicherebbero troppo blanda.

Certo, il peperoncino (o la sua polvere) è un potente irritante delle vie digestive, respiratorie (polvere), renali, e perfino della pelle. E in Oriente miete vittime a migliaia (tumori). Un tailandese medio, p.es., ingerisce ben 2,5 g di peperoncino piccante al giorno (pari a 0,5-1 mg di capsaicina per kg di peso), per tutta la vita. Insomma, se in eccesso e consumato a lungo, forse per concomitante carenza di alimenti protettivi nella dieta orientale (verdure crude, frutta, latte), è collegato epidemiologicamente ad un più alto tasso di tumori a naso, bocca, faringe, laringe e esofago, mentre è provata anche in Occidente la sua azione irritante sulle vie digestive, fino a microlesioni temporanee nello stomaco che favorirebbero l'ulcera. Ma sullo stomaco l'azione è controversa. Secondo altri studi proprio questa aggressività sulla mucosa gastrica determinerebbe una "reazione adattativa" che stimolerebbe le difese. Ma sull'impiego terapeutico e sui rischi del peperoncino faremo la sintesi in un articolo apposito.

"E' VERO CHE COTTO E' TOSSICO?" - Rispondo all'amica erborista Sabrina: "Oggi un mio cliente mi ha chiesto se è vero che il peperoncino cotto sviluppa una sostanza tossica, e che quindi va usato solo crudo. A me non risulta, ma forse non ne so abbastanza, tu che ne dici?"
Non ho trovato nulla di "tossico" negli studi che ho letto sul peperoncino, che - crudo o cotto - sia più tossico della stessa capsaicina, il suo principio pungente. Quindi, risponderei di no. D'altra parte, il peperoncino piccante si usa a piccole dosi. Proprio perché piccante. Dunque, eventuali altre sostanze naturali (ogni pianta può averne centinaia e perfino migliaia) non avrebbero modo di emergere in una dieta fino a diventare rilevanti o pericolose prima della potente capsaicina e degli analoghi capsaicinoidi, i principi attivi pungenti di alcune varietà di Capsicum. Perciò restringiamo i sospetti alla capsaicina.
In generale, che si sappia, la capsaicina e i capsaicinoidi sono sostanze abbastanza stabili e resistenti al calore. Ma certo non sono il licopene (pomodoro) che con la cottura normale non fa altro che concentrarsi (ragù, doppio concentrato) senza modificarsi.
Diciamo che come tutte le erbe e le spezie il peperoncino intero, tagliato, spezzettato o in polvere, non andrebbe mai cotto, ma semmai (tanto più se in polvere) aggiunto alla pietanza bollente in fine cottura, oppure (fresco tagliuzzato o secco sbriciolato) unito qualche minuto prima di spegnere la fiamma, rimestando quel tanto che consenta ai suoi principi piccanti di passare all'esterno e insaporire il tutto.

Se invece il peperoncino deve insaporire l'olio (p.es., spaghetti "aglio, olio e peperoncino"), al quale cede la capsaicina molto più rapidamente e totalmente che nell'acqua, basterà lasciarlo o rimestarlo un poco nell'olio bollente, anche lontano dalla fiamma, dopo averlo tritato finemente - usando i guanti di gomma o con gli appositi tritatutto - o, se poi deve essere eliminato dalla pietanza, dopo averlo affettato in sottili cerchi sul tagliere.
Diverso il caso, in cui nel Sud si usa preparare qualche conserva di peperoncini piccanti ripieni (la varietà più grande). Come buona norma di prudenza igienica anti-botulino si dovrà sbollentare per vari minuti il peperoncino in acqua e aceto e poi conservarlo in aceto: Ma così cambierebbe sapore e tenderebbe all'amarognolo, come del resto la polvere vecchia di peperoncino. E perderebbe anche gli enzimi e la vitamina C.

IL CASO CALABRIA - In Calabria una "crema di peperoncino" cruda è prodotta in modo teoricamente igienico lasciando - cito a memoria - i peperoncini aperti sotto sale per alcuni giorni, poi eliminato l'eccesso di sale si tritano nel mixer con quel po' di vino forte che serve a creare una crema soffice e omogenea. Si mette nei vasetti evitando bolle d'aria, si chiude ermeticamente e si sterilizza in acqua bollente, come per la salsa di pomodoro. Sui dettagli di questa tecnica si consultino seri esperti di conserve. Qui possiamo raccomandare solo, in caso di elevato consumo di peperoncino, di assumere nello stesso pasto frutta cruda e verdure in abbondanza. Ai calabresi che insistono con la mania del piccante, consiglio vivamente, prima di addentare le fette di pane spalmate di crema di peperoncino puro, di bersi un buon bicchiere di latte intero. Non lo faranno mai. Ma almeno si mangino una grossa insalata cruda e verde, e 2 arance, subito dopo.

I DANNI DELLA COTTURA IN UNO STUDIO SCIENTIFICO . Per gli appassionati di scienza, o per chi esige sempre le prove, ecco uno studio di Ute Schweiggert e coll., pubblicato da Innovative Food Science & Emerging Technologies, una rivista scientifica di tecnologie alimentari, che riguarda gli effetti della cottura a 80°, 90° e 100°C per 5 e 10 min. di peperoncini freschi appena raccolti e di "Chili paste" (crema di peperoncino), e anche le conseguenze della successiva conservazione a temperatura ambiente per 6 mesi del liofilizzato, cioè la polvere ottenuta eliminando l’acqua per evaporazione rapida. Quindi, nelle condizioni migliori, ideali, per favorirne la conservazione. Condizioni che raramente si verificano in negozi di alimentari o abitazioni.
Eppure, nonostante la discreta fama di stabilità della capsaicina, il processo di riscaldamento ed essiccamento riduceva del 21,7-28,3%, quindi fino quasi ad un terzo, i capsaicinoidi totali. Durante la conservazione di 6 mesi con e senza illuminazione, un’ulteriore degradazione dei principi pungenti si verificava (dal 6,8 all’11,9%). In totale, quindi – siamo noi a fare la somma – la diminuzione dei principi piccanti arrivava, pur in quelle condizioni ideali, al 28,5-40,2% rispetto ai capsaicinoidi iniziali.
E’ molto, e questo dovrebbe far pensare coloro che amano i peperoncini cotti o conservati bolliti (anziché in aceto, p.es.). Anche se l’argomentazione che alcuni consumatori ne danno è che il sapore è "ingentilito" e più armonico.
Ma torniamo allo studio. Dal momento che la perdita di capsaicinoidi veniva attribuita all’attività degli enzimi sopravvissuti al trattamento, è stata investigata l’attività della perossidasi solubile POD. Si è visto, però, che il trattamento al calore non aveva inattivato del tutto l’enzima. Anzi, una rigenerazione successiva di circa il 30% è stata segnalata per i campioni sbollentati a 80°C per 5-10 min e poi tagliati in piccoli pezzi. Però si è scoperto che non c’era relazione tra attività POD e perdita dei capsaicinoidi. Se questi si riducono – tiriamo noi le conclusioni – è per la cottura e gli agenti ambientali, non per le perossidasi presenti nel peperoncino.
Ad ogni modo, se anche modeste cotture e la conservazione nei magazzini, nei trasporti, nel commercio e nelle abitazioni (e nelle condizioni peggiori) distruggono gran parte dei principi pungenti del peperoncino, che sono molto resistenti, immaginiamo quello che avverrà alle altre centinaia di sostanze presenti nel condimento, a cominciare dall’alto tenore di vitamina C (che comunque è irrilevante ai fini pratici di una dieta, perché il peperoncino si usa solo a grammi).
Tutto questo conferma il buon uso naturista e scientifico di usare erbe aromatiche e spezie sempre crude, tutt’al più aggiunte in fine cottura o a fiamma spenta o direttamente sul piatto, a seconda delle erbe e dello stato (la polvere va di preferenza sempre sul piatto).

RIFERIMENTI. "Effects of blanching and storage on capsaicinoid stability and peroxidase activity of hot chili peppers (Capsicum frutescens L.)", a cura dell’Istituto di Tecnologia degli Alimenti della Hohenheim University, di Stoccarda (vol. 7, 3, sett. 2006, 217-224).

IMMAGINE. Due peperoncini dipinti in un acquerello.

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giovedì 17 aprile 2008

INTEGRATORI e antiossidanti. Inutili o dannosi secondo molti studi scientifici.

Chi di voi non ha mai preso di tanto in tanto, in inverno, una compressa di vitamina C o acido ascorbico, sostanza che – si legge in tutti gli studi dedicati – non riesce a prevenire – statisticamente – neanche la più leggera infreddatura e che un famoso professore di medicina, per svegliare gli studenti degli ultimi banchi, dichiarava “buona solo per fare una pipì molto costosa”?
      Dahlberg e colleghi furono pionieri nel mettere alla prova l’acido ascorbico. Ma su un campione di 1259 soggetti – riprendo dal mio Manuale di Terapie con gli Alimenti – già nel 1944 non registrarono nessuna differenza significativa negli episodi di raffreddore tra quelli che avevano preso l’acido ascorbico (l’integratore di vit. C), e quelli che avevano avuto un placebo: appena lo 0,05. Dati analoghi da altri studi più recenti (uno per tutti: Glazebrook & Thomson, rif. dalla review di T.C. Chalmers, del Mount Sinai Medical Center, 1975).
      E ancora, su 407 soggetti trattati con vitamina C furono contati 6,5 raffreddori a testa in un anno (durata media: 3,9 giorni), contro i 5,9 raffreddori (durata: 4,1) del gruppo di controllo (Anderson et al. 1972). L’anno dopo, lo stesso gruppo di ricercatori su 583 soggetti trattati a vit.C registrò un esito addirittura negativo, sia pure di pochissimo: 6,03 raffreddori anziché 6,0 (Chalmers cit.). Il supplemento di vit.C dato a 47 persone per un anno “provocò” (lo diciamo con ironia) 3,24 raffreddori (durata media: 3,5), mentre i 43 soggetti senza vit.C ebbero ben 6,45 raffreddori (durata: 4,2). Il vantaggio, quella volta fu sostanziale: 3 episodi in meno a persona e un risparmio di 0,7 giorni di malattia (Charleston & Clegg, ibidem). Vi risparmio le centinaia di altri esperimenti clinici più recenti.
      Insomma: molti studi nulli o contraddittori, il che vuol dire nessuna incidenza statistica significativa. Ma forse sintomi leggermente meno marcati. L’unica “vittoria” di Linus Pauling, il Nobel fautore di alte e altissime assunzioni di vitamina C come “preventivo totale”, “anti-infettivo” a vasto raggio, “anti-cancro”, “stimolante delle difese immunitarie”, “antiossidante generale” (questa è la vulgata popolare che ha prevalso tra la gente, per colpa di Pauling), è forse quella, minima, della leggera riduzione dei sintomi… del raffreddore. E ne valeva la pena, per una sostanza che ha purtuttavia una sua intrinseca tossicità?
      Bruce Ames già negli anni Ottanta in una famosissima letter su Science, e poi molti studi odierni, hanno dimostrato che assunto da solo, cioè fuori dei cibi, l’acido ascorbico isolato (“integratore”) è in realtà mutagenico sulla cellula, e si comporta da ossidante anziché da antiossidante. Fino a pochi anni fa si riteneva anche che favorisse i calcoli renali da ossalato di calcio; oggi non è più sicuro. Su una review di Food Chemical Toxicology (1984) si vide che l’eccesso di vitamina C ha affetti molto negativi, analoghi a quelli di una carenza grave: si riducono i livelli del polienzima citocromo P450, è compromessa la sintesi della emoproteina, è ridotta l’attività dell’enzima cholesterol-7alfa-idrossilasi che comanda la degradazione del colesterolo, aumentando il colesterolo nel fegato e nel sangue, e riducendo il ciclo degli acidi biliari.
      Ma a parte l’efficacia nulla, anche l’ assorbimento è inferiore nel caso della vitamina isolata. Anche a basse dosi, è stato provato su 19 soggetti che la vitamina C assunta con la frutta al naturale o nel succo di frutta fresco ha una più alta biodisponibilità, cioè si assorbe molto di più (oltre il 35% in più), della stessa vitamina assunta da sola, cioè come integratore (Vinson & Bose, Univ. Pennsylvania). Su 8 soggetti, 500 mg di ascorbato e l’equivalente sotto forma di succo d’arancia hanno dato in media, misurando l’area sottostante alle curve del grafico, una concentrazione della seconda forma vitaminica nel sangue di 797 ± 82, anziché 590 ± 117, cioè il 35% in più.
      I bioflavonoidi largamente presenti in verdure (peperoni ecc.) e frutta (secondo numerosissimi studi, tanto che ora sono contenuti anche in parecchie formulazioni di integratori di vit.C), e anche (per Szent-Gyorgyi) germe di grano e lievito di birra, sono stati considerati le sostanze nutrizionali e i cibi più sinergici con la vitamina C.
      Non parliamo poi della vitamina A, del beta-carotene o, peggio, dell’ancor più tossico retinolo, o della vitamina D ("per le ossa"), o del complesso antiossidante "ACE più selenio", in cui le tre vitamine-star si accompagnano al più rischioso dei minerali "antiossidanti", così popolare che oggi te lo rifilano perfino nelle bibite da supermercato discount, dove ormai è difficile trovare aranciate e bibite senza vitamine aggiunte. Questa moda non ha niente a che fare con l’alimentazione naturale, anzi è il suo opposto: è una stupida e pericolosa farmaco-mania.
      Perché, appunto, si tratta di farmaci, anche quando la vitamina è definita "naturale", estratta da piante o frutta, e non di "supplementi alimentari", secondo un trucco che evita ai produttori farmaceutici di provarne l’innocuità con lunghi e costosi test. Perciò queste vitamine estratte (o sintetizzate, è lo stesso), questi integratori isolati, sono poco o per nulla provati scientificamente sull’uomo, nonostante il loro diffuso uso spontaneo ovunque (negli Stati Uniti la vitamina C si compra in drogheria, anche a etti), prendendo alla lettera le eccentriche prescrizioni di quegli originali Pauling e Szent-Györgyi, entrambi premi Nobel, che oggi, con le attuali conoscenze che riducono molto l’impiego della vitamina C isolata, sarebbero molto criticati dalla comunità scientifica.
      Integratori “naturali”? Macché. Il termine “naturale” non si riferisce solo all'origine, come credono tutti ingenuamente e come lasciano credere i produttori furbi. Che siano prodotti per sintesi chimica o da estratti di aghi di pino, acerola o erba dei prati, non fa differenza, visto che la formula è la medesima per una sostanza pura: gli integratori sono sostanze artificialmente isolate e separate dalle migliaia di altre presenti nel medesimo frutto o ortaggio, e perciò non più inserite nei complessi sinergismi naturali che tengono in equilibrio e bilanciano tra loro le migliaia di molecole chimiche, com’è tipico della Natura vegetale. E quindi sono tutto fuorché “naturali”: anzi, sono il massimo dell’artificio innaturale.
      Il dr. Andrew Weil, anziano fondatore dell’Arizona Center for Integrative Medicine, è stato uno dei rari botanici a diventare medico, ad Harvard, e ha sintetizzato in un chiaro e icastico articolo per Huffington Post per quali motivi si ricorre così massicciamente agli integratori, sia i medici per gli esperimenti, sia i pazienti: 1. la facilità d’impiego data dalla sicurezza della standardizzazione, 2. la possibilità di larghi profitti per l’industria farmaceutica con i marchi registrati presso l’Ufficio Brevetti. Così, quando una pianta mostra effetti benefici verso l’uomo, i medici e i biologi sperimentali preferiscono usare una sostanza isolata estratta dalla pianta, che loro chiamano quasi abusivamente “principio attivo”, anziché le pianta intera. “Dopodiché – denuncia – noi  [medici] dimentichiamo tutto il resto della pianta, comprese le altre sue sostanze e le complesse interazioni tra di loro”. Ma, se è per la standardizzazione – precisa Weil – la tecnologia moderna permette di coltivare e di trattare le piante naturali, cioè intere, in modo da produrre “complessi standardizzati”. Ma la pianta al naturale offre molte meno possibilità di profitto ai ricercatori. Questo il primo vero, grande motivo del successo degli integratori.
      Fatto sta che le sostanze isolate, sia pure estratte “naturalmente” da piante che pure hanno dimostrato di essere benefiche per l’uomo, possono risultare inefficaci o pericolose, anche perché possono turbare, proprio perché isolate, un delicato equilibrio bio-chimico del nostro organismo che invece la pianta intera non turbava. E infatti si sa da almeno 20 anni che con gli integratori aumentano i rischi. Lo ha provato e straprovato la scienza, e ora anche una nuova meta-analisi che riesamina ex-novo 67 studi scientifici già noti, tutti controllati cioè correttamente condotti, con migliaia di soggetti, per provare che con gli integratori vitaminici – e lo stesso, se non peggio, è con altri integratori – i rischi di malattia e di decesso aumentano, non diminuiscono.
      Per noi naturisti, che seguiamo l’alimentazione naturale e le medicine naturali, ma che teniamo d'occhio gli aggiornamenti della Scienza, è l’ennesima vittoria, l'ennesima conferma. Dopotutto noi e loro deriviamo da un unico antenato comune: Ippocrate.

Non è naturale isolare una sostanza tra le 500 o 5000 presenti in un alimento, facendo a meno dei complessi sinergismi tra sostanze naturali (in molti casi ancora da scoprire) che bilanciano, potenziano, neutralizzano, modulano le azioni farmacologiche delle varie sostanze presenti nel vegetale, e propinarla da sola, cioè "pura", a noi stessi o ai pazienti. Che poi è quello che si fa coi farmaci, anche queste sostanze isolate, pure. Invece, è naturale l’alimentazione nel suo complesso, è naturale un solo alimento purché intero, completo, cioè integrale (al limite una parte di esso, p.es. il germe di grano), sono naturali l’acqua, la luce, il sole, le terre, le piante officinali (anche queste, solo se intere, fresche o ben conservate, o estratti o tinture ottenuti dall’intera pianta).
. 
      Questo restringe moltissimo il campo del business, insomma gli affari del settore industriale e commerciale pseudo-naturista o finto “naturale”, ma tant’è, è la scienza. Ma come, non accusavamo la scienza di proporre farmaci inutili, spesso tutti con la medesima molecola isolata? E una volta tanto che la scienza smentisce il business dell’industria farmacologica che la finanzia, non vogliamo crederle? Tra l’altro è una conferma che va d’accordo con la Tradizione. Quindi, che volete di più? O vogliamo aggiungere nuovi farmaci a quelli già troppo numerosi della farmacia?
      Davvero siamo diventati tutti così artificiali, così poco amanti e sospettosi del cibo naturale per l’uomo, da preferire quei veri “farmaci innaturali” (nonostante la definizione legale di comodo) che sono gli integratori da farmacia, erboristeria, palestre, negozi per pesistica ecc., tanto da rivolgerci alla farmacia o all’erboristeria anziché al negozio di frutta e verdura? Ma allora, molecola isolata per molecola isolata, cioè artificiale, tanto vale affidarsi ai farmaci veri e propri, registrati come tali, che almeno per legge devono essere provati e riprovati (e con tutto ciò, siamo noi consumatori umani, dopo gli animali di laboratorio, a fare da cavie finali, effettive). Invece, i cosiddetti “integratori alimentari”, definiti così da scandalose norme di legge (in tutta Europa) solo per eludere i costosissimi e rischiosi controlli sull’efficacia terapeutica che si pretendono dai farmaci non sono testati minimamente, né devono provare di essere efficaci per essere posti in commercio. E’ sufficiente che non siano immediatamente tossici!
      Ci dispiace per medici, farmacisti, istruttori di palestre, naturopati, erboristi, riviste che vivono con la pubblicità delle ditte del "finto Naturale", e pure per qualche medico, che basano gran parte dei loro interventi (e guadagni) sugli integratori, sulle vitamine isolate, sugli antiossidanti, sugli estratti dalla dubbia efficacia. Quelle compresse, polveri, gelée, pillole, capsule, quegli opercoli, estratti, granuli, non solo probabilmente non servono a niente, ma possono aumentare i rischi.
      Primo perché non si tratta di alimentazione, ma di una vera e propria cura farmacologica, con tutti i rischi tossicologici di una nuova sostanza che viene a turbare – e non si sa neanche come e quanto – l’equilibrio chimico e metabolico del nostro corpo(Michele Carrubba, docente di farmacologia, intervistato da Luigi Ripamonti sul Corriere della Sera online, a commento dell’articolo riportato più avanti). E poi perché il ricorso alla presunta "àncora di salvezza" della compressa consente ai tantissimi che si alimentano male e conducono vita sedentaria (che già di per sé è ad alto rischio) di continuare a farlo con l’errata convinzione di "aver fatto tutto il possibile", di "curarsi", di "essere finalmente a posto" (Andrea Ghiselli, nutrizionista Inran, ibidem). Ecco l’articolo del Corriere della Sera che divulga la ricerca scientifica di cui si tratta:

Meta-analisi dell'Università di Copenaghen 
INTEGRATORI VITAMINICI "A RISCHIO"
Secondo l'analisi di studi pubblicati negli anni passati potrebbero aumentare la mortalità
Corriere della Sera, 16 aprile 2008
      “Le pillole a base di integratori vitaminici potrebbero aumentare il rischio di mortalità, accorciando di fatto la vita di chi li assume. L'allarme viene da uno studio della Copenaghen University, pubblicato su The Cochrane Collaboration e su JAMA. Gli scienziati, riesaminando 67 studi clinici randomizzati sulle pillole vitaminiche, hanno appurato che non c'è "nessuna prova convincente" che gli integratori facciano bene alla salute, mentre ve ne sarebbero sulla loro dannosità.
      La metanalisi, cioè l'analisi di studi già pubblicati [ovvero, il riesame critico alla luce delle conoscenze scientifiche e delle più severe norme interpretative di oggi, di numerosi studi esistenti in letteratura scientifica, NdR], ha preso in considerazione ricerche cha hanno coinvolto 232 mila partecipanti, confrontando chi aveva assunto integratori con chi aveva preso solo un placebo o non aveva avuto nessun trattamento. Gli integratori analizzati sono stati il beta-carotene (noto precursore della vitamina A, che è convertito in vitamina A retinolo nel corpo), la vitamina, la C, la E e il selenio. 
      "Non abbiamo trovato alcuna prova - sottolinea Goran Bjelakovich, il ricercatore che ha guidato la ricerca presso l'Università di Copenaghen - che prendendo integratori antiossidanti si riduca il rischio di morte precoce per persone sane o malate". Anzi, "i risultati mostrano che i soggetti a cui sono state somministrate beta-carotene, vitamina A e vitamina E hanno mostrato un aumento dei tassi di mortalità". Mentre "non vi è stata alcuna indicazione del fatto che la vitamina C e il selenio possano avere effetti positivi o negativi, abbiamo bisogno di più dati". 
      “Prese separatamente, alla vitamina A è stato associato un 16 per cento di aumento della mortalità, al beta-carotene, un 7 per cento e alla vitamina E un 4 per cento. In sostanza, riassume Bjelakovich, "le attuali evidenze scientifiche sconsigliano l'uso di integratori nella popolazione sana". Antiossidanti dannosi, dunque, ma sul perché i ricercatori non si sbilanciano: probabilmente "il loro uso eccessivo può alterare i processi fisiologici".
      Qui finisce l’articolo divulgativo.

Lo studio originale di Bjelakovich e colleghi é consultabile su JAMA, rivista scientifica molto letta dai medici (che dopo preparatori di palestre e farmacisti sono i maggiori “prescrittori” di integratori), e conferma su ben 232.000 soggetti (non topi o ratti, ma esseri umani in carne e ossa) che gli integratori vitaminici e minerali sono inutili e apparentemente innocui, oppure inutili e addirittura dannosi. 
      Ed ora due studi scelti casualmente tra migliaia, entrambi pubblicati dalla più importante rivista scientifica di nutrizione clinica al mondo, che illustrano chiaramente la differenza abissale in efficacia tra alimenti completi e integratori: 

IL CASO DELLA MELA E DELLA VITAMINA C. Verdure e frutta hanno effetti benèfici non per i singoli antiossidanti, fosse pure la vit.C “naturale”, ma per la combinazione sinergica, questa sì, davvero naturale, dei vari principi attivi:
      “Health benefits of fruit and vegetables are from additive and synergistic combinations of phytochemicals”. Rui Hai Liu. American Journal of Clinical Nutrition 78, 3, 517S-520S, September 2003. . 
      Regular consumption of fruit and vegetables is associated with reduced risks of cancer, cardiovascular disease, stroke, Alzheimer disease, cataracts, and some of the functional declines associated with aging. Prevention is a more effective strategy than is treatment of chronic diseases. The key question is whether a purified phytochemical has the same health benefit as does the whole food or mixture of foods in which the phytochemical is present. Our group found, for example, that the vitamin C in apples with skin accounts for only 0.4% of the total antioxidant activity, suggesting that most of the antioxidant activity of fruit and vegetables may come from phenolics and flavonoids in apples. We propose that the additive and synergistic effects of phytochemicals in fruit and vegetables are responsible for their potent antioxidant and anticancer activities, and that the benefit of a diet rich in fruit and vegetables is attributed to the complex mixture of phytochemicals present in whole foods. 

I VEGETALI AL NATURALE RIDUCONO IL RISCHIO CANCRO, MA NON GLI INTEGRATORI DI VIT.C ED E 
      “Epidemiologic evidence for vitamin C and vitamin E in cancer prevention”. T Byers and N Guerrero. American Journal of Clinical Nutrition 62, 1385S-1392S. 
      Antioxidant nutrients have been hypothesized to be protective against cancer. Vitamin C is a major circulating water-soluble antioxidant, and vitamin E is a major lipid-soluble antioxidant. Many case-control and cohort studies have related cancer risk to estimates of nutrient intake derived from food intake reports. Diets high in fruit and vegetables, and hence high in vitamin C, have been found to be associated with lower risk for cancers of the oral cavity, esophagus, stomach, colon, and lung. Diets high in added vegetable oils, and hence high in vitamin E, have been less consistently shown to be associated with cancer protection. This may be because vitamin E offers less protection against cancer or because the estimation of vitamin E intake is less accurate than is the estimation of vitamin C intake. In contrast with the findings from epidemiologic studies based on foods, observational studies of nutrients consumed in supplements and recent experimental trials provide little support for a strong protective role for vitamins C or E against cancer. If vitamins C or E are indeed protective against cancer, that protection may derive from their consumption in complex mixtures with other nutrients and with other bioactive compounds as found in the matrix provided by whole foods.

E già in passato si era visto che gli integratori di vitamine A retinolo, A betacarotene ed E isolate, si rivelano inutili, anzi dannose. In numerosi studi clinici i soggetti a più alta assunzione di integratori di beta-carotene o retinolo non solo non avevano un più basso rischio tumorale o cardiovascolare (Hennekens et al. 1996), ma anzi soffrivano un più alto rischio – addirittura un terzo in più – di cancro ai polmoni, e avevano un più alto tasso di decessi.
HENNEKENS et al. Lack of Effect of Long-Term Supplementation with Beta Carotene on the Incidence of Malignant Neoplasms and Cardiovascular Disease. N Engl J Med 1996; 334:1145-1149 May 2, 1996.
      Uno studio che ha fatto epoca, noto come “Beta-carotene and retinol efficacy trial” (CARET), condotto su 18 mila fumatori o ex fumatori negli Stati Uniti a partire dal 1983 (era proprio l’epoca dei primi trionfanti esperimenti col beta-carotene sugli animali di laboratorio), fu addirittura interrotto d’urgenza nel gennaio 1996 quando ci si accorse che il gruppo che assumeva i supplementi di vitamina A (30 mg di beta-carotene e 25000 UI di retinolo al giorno) stava avendo molti più tumori ai polmoni (fino a +28%) e più decessi (+17%) del gruppo che riceveva un placebo. Effetto ancora più marcato ha avuto l’integratore di beta-carotene in compresse su fumatori o esposti all’amianto, proprio le categorie che lo assumevano “per prevenire” o “curarsi”, come si vede nello studio integrale allegato (Goodman et al. 2004):

GOODMAN et al. The beta-carotene and retinol efficacy trial: incidence of lung cancer and cardiovascular disease mortality during 6-year follow-up after stopping beta-carotene and retinol supplements. J Natl Cancer Inst. 2004,96(23),pp.1743-50
      Supplementi di betacarotene (20 mg/die), inoltre non riducono i rischi di ricadute e comunque di malattie coronariche fatali in chi già ha subìto un infarto (Rapola et al. 1997)
      D’altra parte, i supplementi di vitamina C (secondo certe fonti il limite massimo sarebbe addirittura di 2000 mg/die) in realtà aumentano – di molto: fino al 40% – il rischio di ossalati e calcoli ai reni (Massey et al. 2005), e aumentano – di molto: 56% - il rischio di cataratta nelle donne (Rautiainen et al. 2009)

Insomma, unendo le conclusioni dei tre importantissimi studi (che non sono isolati, ma suffragati da altre centinaia) è doveroso trarre le seguenti regole di comportamento alimentare e terapeutico:
      Le potenti attività antiossidanti e antitumorali di verdura, frutta, legumi e alimenti integrali sono molto probabilmente dovute agli effetti sinergici delle loro varie sostanze fitochimiche. Infatti, la vitamina C nelle mele – analizzate con la buccia – fornisce solo lo 0,4% dell’attività antiossidante totale. Il che suggerisce che la maggior parte del potere antiossidante dei cibi vegetali deve provenire da polifenoli e flavonoidi (nel caso della mela, appunto, concentrati nella buccia). E infatti gli studi sugli integratori forniscono pochi sostegni all’ipotesi d’un forte ruolo protettivo per le vitamine isolate C o E contro il cancro. E se pure queste vitamine sono davvero protettive, questo può derivare dalla loro assunzione in miscele complesse insieme con altri nutrienti e altri composti bioattivi, come appunto accade nei cibi integrali.
      E questo è un principio generale che vale, con rare eccezioni per tutte le sostanze contenute negli alimenti, quindi vitamine, sali minerali, aminoacidi ecc. 
      Insomma, nonostante che diversi studi affermino il contrario, non esiste evidenza scientifica che assumere vitamine, minerali, antiossidanti attraverso integratori abbia gli stessi effetti benefici sull'organismo che assumere regolarmente frutta e verdura, concludono i ricercatori nutrizionisti. Al contrario, chi consuma integratori può cadere vittima d’una falsa sicurezza, cioè ritenere erroneamente di non dover curare e migliorare la propria alimentazione, dato che “assume già le sostanze” attraverso pillole, tavolette, polveri, soluzioni idroalcoliche ecc. (INRAN).
      Neanche nel caso delle bevande gli integratori (salini o minerali) sono indispensabili, utili o sicuri: basta la semplice acqua (di rubinetto o in bottiglia), unita al consumo di verdura e frutta della dieta (v. monografia sulle acque da bere). 
      In alcuni casi, poi, all’inutilità e inefficacia degli “integratori” si aggiungono sofisticazioni o l’insufficiente percentuale del principio attivo vantato in etichetta rispetto all’olio o al vegetale fresco o al succo del vegetale (p.es. nel caso di alcune capsule di Omega-3), o addirittura l’assenza del principio attivo e del vegetale stesso (p.es. gli antocianosidi specifici), com’è risultato da un’indagine sugli “integratori di mirtillo”.

AGGIORNATO AL 12 FEBBRAIO 2017

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domenica 13 aprile 2008

DONNE e estrogeni. «Ho 40 anni e voglio un bambino: vanno bene soia e tofu?»

FITO-ESTROGENI, CICLO MESTRUALE, FECONDITA’ E MENOPAUSA. Mi è arrivato un messaggio da parte di una donna che ha frequentato i miei Seminari. Solleva un problema che credo interessi molte altre donne:

Caro Valerio, nelle dispense del tuo ultimo Corso ho trovato che la donna che fa uso frequente di soia e fa cure ormonali è meglio che avverta il proprio medico per eventuali interferenze che si potrebbero creare. Mi sono chiesta se da quarantenne già con una figlia di un anno, (non sto facendo cure ormonali, ma stiamo cercando di avere un altro figlio) l'uso quotidiano di latte di soia mi possa sfavorire. La mia ginecologa (omeopata) mi ha suggerito di prendere prodotti erboristici (Maca forte e pulsatilla). Mi interessa molto il tuo parere al riguardo e se hai consigli da suggerire ben vengano”. Emanuela V.

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L’Asia e l’Occidente sono divisi anche dai legumi. Il forte consumo di legumi – come da noi nell’Antichità, e fino agli anni 50 nelle campagne – sembra tener bassa in Estremo Oriente l’incidenza di disturbi della menopausa (vaginiti, vampate di calore, irritabilità ecc.), malattie cardiache, osteoporosi, tumore al seno e cancro della prostata. Che invece sono più frequenti in Europa, Nord-America e Australia, dove ricchezza e stile di vita cittadino hanno imposto cibi più rapidi da preparare, con proteine più assimilabili, quindi "migliori" (sono stati i nutrizionisti a mettercelo in testa), ma anche di maggior prezzo e status symbol (carni, latticini). La controprova? A mano a mano che le nuove generazioni asiatiche copiano l’Occidente stanno aumentando anche in Asia queste malattie.

[Tra parentesi, è l’effetto copia di tutte le evoluzioni studiato dagli psico-sociologi: ovunque si imitano società e individui ritenuti "dominanti". Gli orientali stanno agli occidentali come in Occidente le donne stanno agli uomini, visto che copiano i comportamenti maschili (fumo, pantaloni, taglio di capelli, voce ecc.) razionalizzandoli freudianamente come "maggiore praticità" o reazione allo stress].

Ma torniamo ai legumi. Le donne orientali, che mangiano legumi ogni giorno (lenticchie, soia, piselli ecc.), e perfino il pane (papadam) lo fanno talvolta con la farina di lenticchie dhal, quasi non conoscono il climaterio, che invece colpisce oltre l’80 per cento delle donne occidentali, che i legumi non li mangiano quasi mai.

I legumi sono ricchi di fitoestrogeni, in particolare isoflavoni e lignani. Statistiche mediche comparate hanno messo in luce una relazione inversa tra livelli di fitoestrogeni nel sangue o nelle urine e la diffusione di disturbi della menopausa, malattie cardiache, osteoporosi, tumore al seno e cancro della prostata. Ma questi simil-estrogeni vegetali possono modificare il ciclo.

L’influenza di una dieta con proteine di soia sullo stato ormonale e il ciclo mestruale è stata esaminata in donne pre-menopausa con regolari cicli ovulatori. Le proteine di soia (60g, contenenti 45 mg di isoflavoni) date ogni giorno per un mese hanno aumentato la lunghezza della fase follicolare e-o la ritardata mestruazione. Gli accessi di metà ciclo di ormone luteinico LH e ormone follicolo-stimolante FSH durante la dieta non si sono verificati. Nella fase follicolare aumentava la concentrazione di ormone estradiolo nel sangue, mentre quella del colesterolo diminuiva del 9,6%. Simili risposte si hanno col tamoxifen, un anti-estrogenico usato negli studi clinici come preventivo nelle donne ad alto rischio di cancro al seno.

Questi effetti sono dovuto a fitoestrogeni non-steroidei (isoflavoni) che si comportano in parte come agonisti-antagonisti degli estrogeni. In tal modo le risposte alle proteine della soia sono potenzialmente benefiche rispetto ai fattori di rischio per il cancro al seno, e possono in parte spiegare la bassa incidenza di cancro al seno, e la sua correlazione con un alto consumo di soia nelle donne giapponesi e cinesi (Biological effects of a diet of soy protein rich in isoflavones on the menstrual cycle of premenopausal women. Cassidy et al, Am J Clin Nutr l994;60:333-40).

Soia, i principali isoflavoni

Ricordo, però, che i fitoestrogeni degli alimenti, pur andando a colpire nel corpo umano i medesimi recettori degli estrogeni (e, anzi,  proprio per questo si è scoperta l’equivalenza), sono centinaia di volte meno potenti degli ormoni estrogeni presenti negli organismi animali.

Perciò, non dovrebbe dare problemi un bicchiere di latte di soia al giorno, se non si stanno facendo cure ormonali. A meno che l'endocrinologo o il ginecologo che conoscono la paziente meglio di chiunque altro, compresi i suoi livelli ormonali e le sue tendenze, non dicano di no. In questo caso non si può giudicare a distanza e in teoria.

Il problema è invece nutrizionale e dietologico: perché dopotutto bere il latte di soia anziché quello vero, visto che un bicchiere o una tazza di latte o yogurt contiene solo 3,1-3,5 g di grassi (e non tutti saturi)? Diverso è il caso dei formaggi, ovviamente, di per sé molto grassi. Ma il latte è, al contrario di quanto si crede, un alimento-bevanda “magro”, anzi magrissimo. L’errore, questa volta tanto dei ricercatori, è di comprendere per praticità di classificazione cibi così diversi sul piano nutrizionale nella generica categoria dei… “latticini”, che hanno in comune che cosa? Solo la proteina caseina e un buon apporto di calcio.

Per presunte intolleranze? Va bene. Anche se quella del latte, cucchiaino dopo cucchiaino, tende a sparire. Altrimenti, per ridurre il lattosio si provi a sostituire il latte con lo yogurt, o ad acidificare il latte con succo di arancia o limone, oppure a mangiare agrumi subito dopo (se non ci si fida dell'acido cloridrico dello stomaco...).

Per la protezione pseudo-ormonale? Va bene. Se ne parla spesso in caso di osteoporosi da menopausa, ma anche per l’alimentazione in gravidanza. E’ noto il potere protettivo dei fitoestrogeni, purché da alimenti e non da integratori, visto che sono stati provati i rischi anche gravi di questi ultimi sulla donna e perfino sul bambino. Anzi, un recente studio dimostra che bambini allattati al seno da madri che consumano soia hanno nelle urine più isoflavoni delle stesse madri (Franke et al., Am.J.Clin.Nutr., 84:2, 406-413, 2006).

Ma è bene dire che questa protezione è più efficace e sicura con i legumi interi mangiati spesso, come le donne orientali, in particolare con la soia, che avendo più sostanze attive e per di più dando nello stesso tempo molte calorie e massa alimentare, fibre incluse, possono essere usati per sostituire egregiamente ben altri cibi dannosi: i primi e i secondi piatti dei nostri pasti troppo ricchi. Altro che il solo latte.

Isoflavoni. Porzioni negli alimenti (NV 2010)

Invece, il latte di soia, che è in gran parte acqua e quindi non sfama, pur conservando una discreta quantità di fito-ormoni (v. tabelle), dal punto di vista nutrizionale e dietologico non sostituisce un bel nulla. In teoria non impedirebbe di mangiare 200 g di parmigiano o una fiorentina alla brace da 500 g, o un piatto di pasta raffinata con condimento alla panna.

Questo è un punto importante, che è anche il segreto di una alimentazione davvero "naturale": unire il potere preventivo a quello nutrizionale e dietetico. Altrimenti il salutista o naturista finirebbe per mangiare male come tutti, sbilanciando l’organismo e abbassandone le difese, salvo illudersi di mettere "tutto a posto" o di curarsi con uno yogurt, una galletta di riso soffiato, o addirittura una compressa di integratore usato come un vero farmaco disancorato dal cibo. Un'abitudine consumistica che è altamente diseducativa. Quindi non ho niente contro le "cure" di pulsatilla, maca o ginseng se efficaci, ma prima di tutto curare bene il regime alimentare, specialmente nel medio e lungo periodo.

Ben vengano, perciò, i cibi ricchi di fitoestrogeni come gli isoflavoni genisteina e dadzeina, e i lignani presenti in legumi e cereali integrali, purché regolarmente consumati attraverso sostanziosi alimenti, ed anche in buone quantità. E magari integrando o alternando le fonti, tra le quali – perché no? – anche il latte di soia o il tofu (v. tabelle).

Ma se la donna che si appresta ad avere un bambino è di tendenza vegetariana, tanto più – paradossalmente – le consiglierei di bere il latte normale, e neanche scremato, in modo che conservi nella piccola parte grassa le vitamine A retinolo e D (quest’ultima rarissima nei cibi, e coinvolta nella salute e stabilità delle ossa), piuttosto che quello di soia, e tantomeno quello di riso, anche per ritardare l'esaurimento delle riserve organiche di vit. B12 e prevenire eventuali carenze nel bambino cresciuto. I neonati di madri vegetariane, infatti, sono ad alto rischio se il regime della madre non è corretto (e qui il vegetarismo non ha colpe: sono le persone che devono avere intelligenza e buon senso). A meno che la madre vegetariana non voglia smentire la dieta in cui crede ricorrendo alle pillole di vit. B12 della farmacia o dell’erboristeria.

Sull’efficacia reale di prodotti non “erboristici”, come dice la lettrice, ma omeopatici, come maca e pulsatilla, non mi pronuncio. Bisogna vedere che cosa contengono realmente. Sul problema delle maternità oltre i 40 anni, infine, i pro e contro vanno valutati insieme con la ginecologa di fiducia..

RIFERIMENTI PER SAPERNE DI PIU’. Sugli effetti reali o presunti, valutati in studi di laboratorio o clinici, degli isoflavoni (per lo più isolati, il che è il vero limite farmacologico della ricerca, che vuole titolazioni sicure e sempre uguali), e in alcuni casi anche come alimenti, si veda questa ricerca bibliografica, i cui studi, però, vanno valutati caso per caso dal medico specialista.

AGGIORNATO IL 24 FEBBRAIO 2015

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