giovedì 3 aprile 2025

MANGIARE ITALIANO è protettivo se di Tradizione. La scienza lo riscopre ora.

Dopo un secolo di rivoluzione modernista iniziata nel tardo Ottocento e conclusasi solo nei decenni successivi al 1960 (in Italia si parlò di "Miracolo economico" non solo per l'industria e l'economia, ma anche per il popolo), abbiamo assistito a un progressivo recupero delle Tradizioni e dell'Antico. L'Ottocento, il secolo della Chimica e della Meccanica, aveva esagerato nella sua fissazione di purificare le sostanze e metterle a disposizione di tutti grazie ai bassi prezzi e - oggi lo sappiamo - alla loro bassa qualità nutritiva. Si arrivò così alla sostituzione di massa, per la prima volta nella Storia, della farina integrale con quella bianca raffinata (in pratica le attuali cat. italiane 0, 00 e 1), del tutto sconosciuta agli Antichi per millenni, molto più conservabile perché meno appetibile dai parassiti e meno ossidabile in mancanza di silos frigoriferi. Ma anche al largo consumo di zucchero, diventato economico grazie alla coltivazione della barbabietola, e alla riduzione del consumo di molti alimenti vegetali, addirittura fin quasi alla scomparsa sul mercato di centinaia di verdure squisite e preventive (un esempio per tutti, il piccantino crescione d'acqua, che si dovrebbe prenotare ai Mercati Generali, a trovarne di forniti). Cibi quotidiani su cui si era basata l'Umanità per millenni, come tutta la colorita e variegata famiglia di alimenti considerati "poveri" e (ugualmente a torto) di lunga cottura, come i legumi, verso gli anni Ottanta del Novecento erano praticamente spariti da mercatini rionali, botteghe, ristoranti e perfino molte case private. Basta dire che con la mia Lega Naturista negli anni 80 arrivammo al punto paradossale di distribuire ai passanti fette di ottimo pane integrale tradizionale e variamente condito (Roma, viale Cola di Rienzo). Pane, pasta e tutti i cereali integrali; numerose porzioni al giorno di verdure e frutta; legumi il più spesso possibile, anche ogni giorno, così come le uova (penalizzate da una stupida idiosincrasia dei medici di base), oggi finalmente liberalizzate dalla Scienza che accoglie la Tradizione, dopo miei libri e articoli, 20-30 anni prima. Insomma, tutte le caratteristiche protettive, gustative, nutrizionali dell'antico Mangiare Italiano sono prescritte ora dai tantissimi improvvisati sapientoni. Una sottocultura (eufemismo pietoso, per non dire ignoranza crassa) alimentare-storica-scientifica, quella italiana, che ha un ritardo di oltre 60 anni. Fatto sta che dalla fine del Novecento, è iniziata la "contro-rivoluzione", in Italia sicuramente anche per merito del miei libri negli Oscar Mondadori. Il primo, L'Alimentazione Naturale", sorprese tutti, anche la gente di Cultura, e con oltre vent'anni di anticipo su agronomi e altri rari alimentaristi (anche le cattedre e i professori mancavano) è stato l'unico riferimento possibile, in buon italiano, munito del minimo di fonti culturali necessarie per poter incuriosire ed entusiasmare tutta una generazione di futuri biologici, nutrizionisti (non esistevano; sono stati inventati), medici (a titolo personale, perché un medico si occupa di malati, non di sani). E poi altri volumi come "La Tavola degli Antichi", "Il Piatto Verde", "Tutto Crudo", il grande "Manuale di Terapie con gli Alimenti", "Mangiare Italiano", e numerosi articoli sulla stampa (N.V.)


A LEGGERE certi libri di «cucina italiana» o di «dieta mediterranea», si direbbe che i nostri piatti più saporiti e popolari siano caduti nelle mani di qualche burlone, non solo ricco ma anche snob. «Tagliatelle al bran­dy e all'arancia» oppure «coniglio con panna»? «Pizza napoletana al caviale del Volga» o «bucatini con salmone affumicato»? 

Non si sa se ridere o piangere. Così, ormai, è stata ridotta quella nostra semplice e armoniosa cucina di popolo, che era nata nelle aie più che nei palazzi, nei cortili più che nelle corti: un pretesto per fare della gastronomia di cattivo gusto.

La cipolla non «fa fino»? E allora ci si innamora dello scalogno o dell'erba cipollina. Il risotto? Non vale niente se non lo si annega in una bottiglia di costoso Brunello di Montalcino (che il fuoco ridurrà peggio d'un plebeo vino da taglio). Ma, attenzione, cuochi, gastronomi e autrici di ricettari mondani; perché s.nob. vuol dire sine nobilitate, cioè senza nobiltà.

No, non sono quelli i piatti che troverete in questo libro. Perché il mangiare italiano è nato, sì, povero, anzi poverissimo, ma l'inventiva delle cuoche contadine ha fatto di necessità virtù e lo ha reso nobile, nobilissimo. E non parlo soltanto della fantasia e creatività che c'è volu­ta per trasformare l'umile «panonta» (una mensa di pasta) in una ricca pizza «napoletana», o l'uva acerba in agresto, o due porri in soave «por­rea». No, c'è dell'altro.

I contadini italiani - per dirla con Lévi-Strauss - usavano la raffinata tecnica del bollito, mentre gli aristocratici ricorrevano al rozzo sistema dell'arrosto. Perciò sostengo che la cucina «povera» delle verdure e dei cereali, tipica del popolo italiano, è culturalmente superiore, cioè antropologicamente e tecnologicamente più elaborata di quella delle carni e dei grassi propria dei ricchi e dei potenti. Il che non significa, sia chiaro, che qualche curioso esempio di pietanze semplici della bor­ghesia cittadina e delle corti non debba venire riportato in una guida completa del mangiare all'italiana. Solo che nel nostro manuale le fonti popolari antiche sono state privilegiate rispetto a quelle colte, spesso di derivazione straniera.

Perché la cucina «povera» è anche la più ricca in gastronomia, sebbe­ne la cosa possa sorprendere. Peccato, però, che sia stata indebitamente «arricchita», dal '900 ad oggi, da cuochi e massaie di città, che hanno aggiunto dappertutto e in eccesso pomodori, patate, carni, grassi e zuc­chero. Così, un'alimentazione gustosa ma parca è diventata una specie di perenne «abbuffata» e il pasto quotidiano si è trasformato in un ripetitivo «pranzo della festa». Ho dovuto compiere, perciò, dov'era possibile, e senza cedere alla tentazione della completezza, un lavoro di restauro filologico per eliminare le aggiunte e ripristinare il gusto originario, la semplicità d'esecuzione e la varietà d'accostamenti che l'attuale appiattimento gastronomico aveva eliminato (vedi 300 ricette dell'Italia «da salvare»).

Mangiare italiano è, insomma, una guida originale alla cucina sana e «povera» - in realtà la più ricca di pietanze, sapori e aromi - dell'Ita­lia delle buone tradizioni, della civiltà del focolare, del pane scuro, degli alimenti genuini e senza additivi, della cucina svelta e fantasiosa, dei piatti squisiti creati con niente da generazioni di mogli e madri di conta­dini, montanari, pastori e pescatori. È stata la nostra, nonostante tutto, una raffinata e geniale «civiltà della tavola», il regno incontrastato di mille zuppe, minestre, paste, polente, gnocchi, torte rustiche, insalate, contorni e, nelle feste, piatti di carni, pesci, e dolci fatti in casa con amore e con arte da quelle che sono state, forse, le migliori cuoche d'Europa: le nostre nonne contadine. Si pensi soltanto alla ricchezza di sapori e aromi della nostra cucina rustica, in confronto con certa pretenziosa cucina «da ristorante» o con la scialba cucina internaziona­le, tutta panna, creme e salse.

Mangiare italiano è anche una ricerca storica e gastronomica sulle origini - alcune davvero strane e curiose - delle nostre più note pietan­ze povere; ma non si riduce ad una questione di ricette, come se si trat­tasse dell'ennesima dieta alla moda. Al contrario, riscopre una vera e propria cultura del cibo naturale semplice, fresco e sano, un modo di pensare, in cucina, insieme antico e nuovissimo. Mai come ora, infatti, la tavola italiana è stata così attuale, così «vincente».

La dietologia moderna e la scienza della nutrizione hanno riproposto il nostro cibo «povero» d'un tempo come il migliore preventivo, la migliore medicina, contro i molti e gravi malanni della «civiltà del benessere», dall'obesità all'infarto, dal diabete al cancro. E c'è voluto un nutrizionista americano, a conferma del detto latino nemo propheta in patria, perché fossero accertati scientificamente i vantaggi sulla salu­te di un'alimentazione poco grassa, fondata sui cereali completi, sulle verdure fresche, sull'olio d'oliva, sui legumi, sul buon pane all'antica, sul pesce. Che è poi, a ben vedere, il regime alimentare di lungo perio­do - quasi «naturista» diremmo oggi - che ha egregiamente sostenuto per secoli il lavoro e l'ozio, l'intelligenza e l'arte dei nostri avi. E prima che l'America si appropri anche di questo patrimonio culturale (come già fanno temere la «finocchiella in scatola», la «minestra del contadino liofilizzata» e la «pastiera napoletana surgelata», in vendita a New York), affrettiamoci a portare in tavola.

[Presentazione dell'Autore, Nico Valerio, alla I edizione (giugno 1988) del manuale Oscar Mondadori "Mangiare Italiano"].